Depositari della new wave più urticante e strampalata, i Black Eyes si sono rivelati una della formazioni più interessanti di questo primo scorcio di millennio, prima di sciogliersi dopo la pubblicazione del secondo album, l'ottimo "Cough".
Formatasi a Washington, nell'agosto del 2001, la band contava sull'apporto di Dan Caldas, Hugh McElroy, Mike Kanin, Jacob Long (anche coi Rapture per un periodo), già insieme sotto la ragione sociale di NoGos e poi Trooper, e Daniel McCormick. Due bassi, due batterie e una chitarra hanno dato vita a uno dei suoni più creativi della neo-new wave, tra reminiscenze dell'originario punk-funk e di certa no wave, e sfuriate riconducibili all'hardcore evoluto di casa Dischord. Un po' di nomi? Sicuramente Pil, Contorsions, Slits, Gang Of Four, fino a toccare estremi di violenza brada stile Pop Group via Fugazi, se non addirittura Blood Brothers, e schegge di puro rumorismo di stampo Killing Joke. Certamente i migliori della nuova generazione punk-funk, vicini ai Liars per creatività e capacità di osare, diverse spanne sopra !!! e Rapture, senza soffermarci più di tanto sui mediocri Radio 4, meritatamente fanalino di coda della masnada.
La musica dei Black Eyes si ciba quindi di noise e free-jazz, un'autentica esplosione lavica, un esercizio incontrollato di commistione di stili, suoni che deragliano liberamente, esplodendo senza nessuna struttura fissa. Sono i bassi a rendere il suono minimamente intelligibile, costruendo solide architetture dub, su cui si sguinzagliano una baraonda di rumore e forme free da far invidia a James Chance. La percussività spinta dei pezzi non impedisce, anzi favorisce, l'integrazione di ogni tipo di effetto, comunque cooptato e asservito all'incedere disarmonico dell'insieme; non è raro ascoltare sax, come frasi di tastiera. Lo stesso canto, sempre tirato e "urlato", è parte del flusso, non come elemento solistico, ma come fattore disturbante, portatore di ulteriore caos.
In verità, prima del consueto polverone alzato dai media di settore, che in quattro e quattr'otto hanno impunemente costruito una vera e propria scena , vi era già stata una band capace di riesumare con inventiva il punk-funk originario; ci riferiamo ai GoGoGo Airheart, sulle scene dal '97 e titolari di una manciata di lavori davvero notevoli. La band di Michael Vermillion, fattrice di un suono rachitico, claudicante, debitore principalmente di Joseph K e Fall in quanto a indisponenza, aveva provato, e con "successo", una fusione tra i suoni dei primi 80 e l'indie americano degli ultimi dieci anni. Ma tant'è, nessuno se ne è accorto, finché non sono cominciati a piovere i primi soldoni con i vari Rapture, !!!, Tv On the Radio, White Stripes, Strokes e il superbluff del cosiddetto "ritorno al rock".
Tornando a noi, Black Eyes è del 2003 ed esce proprio su Dischord. Prodotto da Ian MacKaye, l'album contiene dieci pezzi concentrati in 31 tiratissimi minuti, un autentico campo di battaglia su cui si abbattono tempeste di piombo sonoro; i cinque sono un commando inarrestabile: affiatatissimi, suonano con una perizia da veterani. Le linee di basso sono i binari su cui viaggia il delirio metallurgico alla Killing Joke di "Someone Has Is Fingers Broken", mentre in "Pack On Wolves" una ridda di urla aggiunge confusione alla confusione, tanto che non si riesce a capire quali strumenti stiano suonando; ritmi ballabili quindi, ma di sicuro non nelle discoteche.
In pezzi come "Nine" e "On the Sacred Side" deflagra l'estro di Black Eyes, nelle vesti di puro rumore organizzato intorno a strutture di basso predefinite. Quest'ultima in particolare è pura sperimentazione sui ritmi, più ritmi che si sovrappongono e si alternano tanto da disorientare.
Dimostrazione di come il canto sia elemento di disturbo creativo è "Speaking Tongues", con raddoppi vocali e una recitazione estrema e scorticata a rendere movimentato un pezzo che mai come in questo caso si regge su una dinamica funk fluida e per nulla esagitata. La band sembra poter andare oltre il punk-funk in "Day Turn Night", esercizio di sciamanico rumorismo, ossessivo, malato, disturbante, che rimanda all'industrial di Factrix.
Black Eyes documenta come arrivare a conclusioni assolutamente originali mescolando suoni già abbondantemente esplorati.
Passa appena un anno e la band ci riprova, non prima di aver annunciato il suo scioglimento. A giochi già abbondantemente fatti, esce Cough, ed è ancora un centro pieno. Laddove Black Eyes eccelleva tanto sul versante del suono quanto su quello della scrittura, nel nuovo lavoro la band sembra ossessionata dalla ricerca di un sound ancor più personale. Eliminato quasi ogni riferimento all'hardcore, cui tracce traspaiono ancora nell'aggressività e nella violenza repressa di cui sono intrise alcune composizioni, il baricentro si sposta sul free-jazz, e il sax diviene protagonista assoluto. Ok qualche divagazione a rotta di collo Blood Brothers ("Scrapes And Scratches") c'è, ma, pur nella compattezza della musica, pare di assistere ai Contorsions che si divertono svisando all'impazzata su strutture dub di marca Jah Wobble; si ascolti in proposito l'ottima "Drums".
Non è presente il pezzo che si eleva decisamente rispetto agli altri, una "Day Turns Night" o una "Letter To Raoul Peck" della situazione, ma è la compattezza la carta vincente di Cough. Le composizioni s'incastrano una nell'altra, dando vita a un lungo serpentone rumorista che si chiude con "A Meditation", con basso atmosferico e svisate di sax che preparano il terreno per uno sconclusionato assalto dub-punk.
E' difficile trovare le parole adeguate per chiudere questa breve retrospettiva, se non che i due dischi lasciavano intravedere un potenziale altissimo e forse il meglio doveva ancora arrivare. Comunque, una band da ricordare.
Black Eyes (Dischord, 2003) | 7,5 | |
Cough (Dischord, 2004) | 7 |
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