Le cose che avvennero potevano accadere solo durante una Fiesta.
Alla fine tutto divenne irreale e sembrava che niente potesse avere conseguenze.
(Da "Fiesta" di Ernest Hemingway, 1926)
Attitudine punk-jazz. Non si tratterebbe certamente di una novità o di un’invenzione fuori dal comune, se non fosse che a padroneggiarla in maniera attendibile è un giovanissimo gruppo nostrano. “Fiesta” nasce all’ombra delle torri bolognesi da cinque ragazzi provenienti da diverse parti d’Italia, Michele Battaglioli (chitarra e voce), Andrea Gerardi (chitarra), Marco Jespersen (basso), Francesco Bonora (batteria) e Jacopo Finelli (sax tenore e sintetizzatori), che apportano il proprio contributo in maniera differente all’interno dell’opera, costituendo un ampio ventaglio di influenze che partono dall’art-rock dei King Crimson, passando per il weird garage dei King Gizzard & The Lizard Wizard, Midwest emo, math-rock, free-jazz, elettronica e hip-hop, fino alla furia degli Idles degli esordi e alla no wave di James Chance.
Titolo e copertina dell’album fanno riferimento alle corride, manifestazioni dove a farla da padrona è la violenza travestita da festa, la cui ritualità rimanda all’energia sprigionata durante i live, nei quali artisti e pubblico esprimono ciò che provano in maniera fortemente fisica e irruente. Gli spasmi di “Come Clean”, botta e risposta tra sax, chitarre e voce, trascinati dalla sezione ritmica in primo piano, aprono il disco guardando in direzione degli Shame di Charlie Steen e del collettivo Crack Cloud, per poi cedere il passo al contrasto tra le liriche piene di dolore e i riff catchy e accomodanti di “So Long”.
Gli accenni hip-hop à-la King Krule di “Dead Well” tengono in sospeso l’ascoltatore in un lento e graduale crescendo rumoroso, esplodendo all’improvviso in una bolgia sfrenata e reboante nella quale a tener banco è il sassofono, con influenze che oscillano tra gli spigolosi Unwound e gli attuali Black Midi, con un pizzico di “Buy” di James Chance & The Contortions.
Il sax è anche il protagonista principale delle atmosfere da jazz club degli anni Venti di “Fiesta”, che per testo e sonorità rimanda al primo omonimo romanzo di Hemingway, e di fatto la seconda voce nella scarna e lineare “Cut”, caratterizzata da synth cristallini appena accennati e bassline in primo piano.
Con la distruttiva e nevrotica “Fly Solo” i ritmi si fanno più serrati, per poi prendere brevemente fiato con l’inizio placido dettato dalle vibes eighties di “No Way” e deflagrare verso “Thin Ice” e gli echi elettronici e l’entrata in scena del sax soprano di Matt Bordin in “Play”.
La conclusione è affidata alle speranze e a un sonoro vaffanculo al mondo, espressi nella più trascinante e noisy “Sunbathing”, con la certezza che anche a fronte di un momento buio “il sole sorgerà ancora” (“The Sun Also Rises” è il titolo originale di “Fiesta” di Hemingway).
“Fiesta” si compone di dieci pezzi agili e veloci, che hanno come comune denominatore l’estetica della violenza e la catarsi, come un film di Tarantino che riesce a unire diversi generi cinematografici esistenti e a sorprendere, giocando con i meccanismi narrativi a proprio vantaggio e risultando credibile.
I Leatherette prendono le mosse da una base di rock underground e modern post-punk, alla quale ognuno dei componenti aggiunge un ingrediente diverso, sfornando nel complesso un buon debut che non ha niente da invidiare ai sempre più numerosi progetti della scena d’Oltremanica.
17/10/2022