08/05/2025

Nadah El Shazly

Serre dei Giardini Margherita, Bologna


Chi ha letto "Vicolo del mortaio", il capolavoro del 1947 con cui Nagib Mahfuz consegnò Il Cairo alla storia della letteratura, non dimenticherà facilmente il personaggio di Hamida: altera, insicura, passionale, nel suo stagno di contraddizioni si specchia la complessità dell'adolescenza e della femminilità. Nadah El Shazly me l'ero immaginata non troppo dissimile - e a giudicare dalla performance che sto per raccontarvi, forse non avevo tutti i torti.

Un vero regalo, questa serata gratuita alle Serre dei Giardini Margherita, per la quale va ringraziato il collettivo bolognese No Glucose. L'assenza di pedaggio può aver contribuito a richiamare un pubblico più folto del previsto, cosa che non sembra mettere a suo agio la protagonista, ridotta a un saltellante fascio di nervi. Somiglia a "Laini Tani", il suo nuovo album in uscita a giugno: meno estatico e contemplativo rispetto a "Ahwar", più frammentato e inquieto. Nervoso, per l'appunto. Alla polvere della metropoli mediterranea si sostituisce l'alienazione che conosciamo fin troppo bene. Nel mezzo ci sono stati la post-club abrasiva di "Pollution Opera" e la delicatezza cameristica di "The Damned Don't Cry", ambedue dello scorso anno. Questo quarto disco, a modo suo, cerca un compromesso tra i due estremi.

Il basso palco è una pala d'altare perfettamente tripartita: sulla sinistra, il laptop di Ismail Hosni; al lato opposto, la maestosa arpa di Sarah Pagé; occhi bassi e movenze legnose, Nadah è controvoglia al centro. Il look è quantomai spartano, con un lungo cappotto di pelle a coprire una camicia a righe da cui spunta un hijab nero. Durante tutta l'esibizione, rassettare il velo costituirà il tic prediletto della cantante, come se assorbisse una misteriosa energia da un simbolo identitario tanto potente.
La scaletta sarà interamente basata sui brani del nuovo lavoro, eseguito (quasi) da cima a fondo. "Elnadaha" si concede il suo tempo per prendere quota, con l'interprete che mano a mano acquisisce sicurezza e i gesti che si fanno meno misurati, fino ad afferrare il microfono a due mani nell'ultima strofa. Da lì, l'intensità del concerto crescerà canzone dopo canzone.

È con i bassi profondissimi, quasi industriali di "Banit" che Nadah si scioglie una volta per tutte, e il pubblico con lei: una trance strisciante s'impadronisce delle prime file, ondeggiando a tempo con una musica che sembra entrare e uscire da uno stato ipnagogico. Gli inchiostri psichedelici di "Eid" penetrano ancora più un profondità e il ciondolare minimale della cantante diventa una contorsione e poi una danza impacciata, che la costringe a liberarsi del cappotto. Su "Dafaa Robaai" si abbassa e si rialza meccanicamente il velo, come per schermarsi da una presenza maligna, mentre le corde dell'arpa vengono pizzicate, percosse, graffiate.

Solo ora arrivano le prime parole, che rimarrano tra le poche. Ci informa che le "sweet songs" precedenti sono state scritte a Montréal, seconda casa dell'autrice, piena di nostalgia per l'amato Egitto, ma che adesso è il momento di "un tipico brano freeform mawal": "Laini Tani" lo è davvero e tutto pare volersi spogliare degli orpelli, a partire dalle luci colorate sul palco, azzerate per far posto a una piatta penombra. Per metà esecuzione ad accompagnare la voce c'è solo l'arpa, via via più dissonante, mentre Nadah si massaggia le tempie come in preda a un'emicrania, scaglia sofferti melismi contro il cielo e poi affonda le dita su un synth acido come un brutto ricordo, con l'autolavaggio lavico di Ismail a lavorarle i fianchi, inchiodandosi all'improvviso come se il tempo si fosse congelato. C'è da rimanere di stucco, ci rimaniamo.

Quasi per farsi perdonare, "Labkha" parte carezzevole, cullata da morbidi vocalizzi, ma poi la psicosi piomba anche qui, Nadah si preme il diaframma per strizzare fuori tutto il fiato che le rimane, annaspa affamata d'altro ossigeno, rantola fuori dal microfono, ghigna, scalpita. Si fatica a riconoscere in tanta furia il timido fuscello delle prime battute.
Il secondo, stringato intervento dura giusto la presentazione dei due accompagnatori, per poi sentenziare "This is the last track". In altre occasioni si sarebbe brontolato, qua non vola una mosca.
"Ghorzetein" è il baccanale finale che è lecito aspettarsi, tra breakbeat tribali, urla, rasoiate d’arpa e un altro lacerante assolo di synth. "Shotra!" ("brava" in arabo) le urla una ragazza egiziana a fianco a me e per la prima volta un sorriso le si stampa in viso, non abbastanza per convincerla a rimanere sul palco.

Ma proprio quando le speranze sono scemate, come per magia i tre riappaiono con quella che ci viene presentata come "la cover di una vecchia canzone del 1925": si tratta di "Ana 'Ishiqt" di Sayed Darwish, padre nobile della musica egiziana, già affrontata su "Ahwar" e qui resa con la violenza di una porta sbattuta in faccia, in gran parte strillata lontana dal microfono, interpretando alla lettera la frustrazione amorosa del testo.
Ancora più sorprendentemente, la troviamo poco dopo al banchetto del merch, aspirando boccate da una sottile sigaretta da vamp. Provo a scambiarci due parole, ma vengo ricambiata con qualche risposta sbrigativa e un impassibile sguardo di sfida. Non resta che lasciarla lì, fragile e fiera, come l'irraggiungibile Hamida che ha rubato il cuore a generazioni di lettori.

Setlist

Elnadaha
Banit
Eid
Dafaa Robaai
Laini Tan
Labkha
Ghorzetein

Encore

Aey Na Balam
Mohabbat

Nadah El Shazly su OndaRock

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