La galassia alternative di fine anni Novanta è un insieme di sistemi in straripante espansione. Alcuni moltiplicano in maniera esponenziale il numero dei propri satelliti celando in realtà al loro nucleo il seme di una straordinariamente lenta implosione (il trip-hop), altri splendono al limite del loro potenziale fino quasi ad accecare (il post-rock), mentre nuovi corpi cominciano a prendere forma sulle carcasse di orbite ufficialmente estinte ma ancora in debito di qualche ciclo karmico.
In tutto questo, la memoria ancora cocente di un meteorite interstellare di nome – guarda caso – Moonshake: una massa spigolosa di indecifrabile provenienza, eppure dalla superficie in qualche modo familiare, tanto familiare da validare le ipotesi generative più diverse da uno qualunque tra i sistemi istituzionalizzati, ma anche sufficientemente alieno da vagheggiarne l'origine in un impreciso spazio oscuro e ancora inesplorato.
Ha fatto appena in tempo a eclissarsi dal raggio di intercettazione, l'esperienza Moonshake (chiusa formalmente nel 1997), che sulla stessa traiettoria è comparso un altro curioso, indefinibile, oggetto.
Da questa parte
Frutto in qualche modo anche dell'avvicinamento "romantico" tra due dei suoi fondatori, i Laika di Margaret Fiedler e John Frenett avevano preso le mosse dalla matrice post-punk della band d'origine già nel superbo esordio “Silver Apples Of The Moon” (1995), opera-cometa pulsante sfrecciata rapida e ignorata, puntando in maniera decisa sull'elettronica e sui vocals della Fiedler. Eppure un sostrato inquieto, il gusto per l'insolito e una spiccata attitudine anti-commerciale ne tradivano chiaro il rapporto di parentela stretta con l'ormai moribonda esperienza Moonshake.
Due anni dopo Fiedler e Frenett (con un organico allargato in pianta stabile al sempre più fondamentale Guy Fixsen, ma anche a Lou Ciccotelli e Louise Elliot, già presenti sul lavoro precedente) ricompaiono con l'intento di ritoccare la formula dell'esordio con in mente un'idea più precisa dell'estetica Laika e un'inedita concessione al tanto temuto compromesso.
Intelligente manager di se stessa e libera dalle note tensioni con Callahan, Fiedler rifinisce il marchio Laika in modo da adattarsi, almeno in superficie, alla moda del momento – il chill-out – e, con una semplice capriola, trasformarsi in elegante felina trip-hop come usa nei Novanta.
Il riferimento al Bristol sound va ben al di là, tuttavia, dall'essere un valido escamotage per inserirsi nelle grazie della stampa specializzata senza turbarne troppo il sonno: Fiedler e Frennett avevano da sempre sostenuto il trip-hop come l'unica (non)tendenza d'Albione veramente valida della decade, rivendicando la loro storica passione per il jazz, il dub e l'analogico. Più volte, inoltre, interrogata dai giornalisti in merito all'originale suono dei Laika, la Fiedler usava liquidare laconicamente la ricetta del gruppo come “trip-hop... ma molto più veloce”, in opposizione alla detestata corrente britpop e alle derive stereotipate in cui il downtempo cominciava a chiudersi.
Agitata e rigirata la snowglobe, utile souvenir ad alto tasso allegorico che portiamo volentieri in orbita, è quindi con un numero dalla crosta squisitamente trip-hop che esordisce “Sounds Of The Satellites”: con un passo felpato tra Portishead e Badalamenti e animata da un Moog caldissimo, “Prairie Dog” si srotola paranoicamente sinuosa su giochi di parole e improvvise spinte nichiliste (“If I could pull the nerves from my skin/ I would”) una manifestazione radicale di quello che da questo istante in poi diventerà con sempre maggiore evidenza il cruccio espressivo del gruppo, il blues. Fiedler ha completato la sua metamorfosi nel ruolo di chanteuse dolce e discreta, eppure agitata costantemente da un'ombra di ansia repressa e faticosamente tenuta al guinzaglio (si senta la ballad delicatamente sofferta di “Shut Off/ Curl Up”). Il blues di Bessie Smith, come rimando immediato e provvisorio, ma anche e soprattutto quello contemporaneo e post-industriale di Beth Gibbons. Lontanissima in ogni caso dall'eterea veste dreamy che più di qualcuno aveva tentato di cucirle fino ad allora, forzando i Laika nel calderone techno-ambient, ma anche dalle strutture più astratte e free, ancora privilegiate con "Silver Apples".
L'altro tratto distintivo del satellite Laika è quindi subito rivelato, ed è da individuare proprio nello smaccato gusto per il retrò, espresso come estetica romantica e naive, ma anche venata da una buona dose di auto-ironia. Ed è in questo disinvolto gioco di paralleli che si inserisce l'uso estensivo dei sintetizzatori. Synth che segnano un netto distacco con il suono marcatamente più ritmico e sporco del predecessore, synth che contribuiscono in maniera decisa alla nuova dimensione, più votata alla melodia di “Sounds Of The Satellites”, nonché a resuscitare più o meno volontariamente spiriti geneticamente affini – Klaus Schulze, Edgar Froese – e solo in apparenza sopiti. “Out Of Sight And Snowblind” (unico pezzo con Fixsen alla voce) e “Starry Night” sono i momenti che più di tutti chiamano in causa il “cosmico”, non solo come strato simbolico ma anche come richiamo e allusione strettamente musicale.
Il disorientamento lunare di “Out Of Sight And Snowblind”, in più, apre uno stretto varco per indagare l'architettura prediletta da questi Laika: una composizione che procede per stratificazioni di background continue, che invece di progredire in accumulazione ondeggia a mo' di flusso circolare, scegliendo di viaggiare su poliritmi ricercatissimi piuttosto che sul 4/4 di rito (altra scelta che proietta i Laika nettamente in avanti rispetto al trend dell'epoca), per estraniare infine il risultato con ulteriori frasi di synth “ambientali”, alternati a incursioni organiche ugualmente aliene.
Analizzato al vivisezionatore, ogni pezzo si rivela in questo modo un serbatoio impressionante di trovate e soluzioni stilistiche, un carico tale di ritmi e melodie che il musicista medio-mediocre si sarebbe fatto bastare volentieri per imbastire un album intero e che per queste orbite si ritrovano invece intrecciati a maglia fitta nello spazio di un brano.
La movenza gentile e ipnotica di “Almost Sleeping”, con tanto di allucinazione exotica in coda (nonché la Fiedler più sensuale), l'incredibile odissea psichedelico-kubrickiana di “Bedbugs”, la nervosa deriva jungle-wave (?) di “Poor Gal” sono i numeri più ammirevoli di tanta laboriosità messa al servizio di composizioni snelle, piacevoli e, in ultima analisi, “pop”.
Una complessità figlia di quelle radici mai veramente troncate con tutto quello che inizia con kraut, con i Can di “Ege Bamyasi” (l'intro di “Starry Night” vale quanto un omaggio), ma anche con King Tubby, con Juan Garcia Esquivel, Erik B. & Rakim fino agli astri liqueformi di Sun Ra.
Un bagaglio diacronicamente assortito, ignaro precursore di tanta retromania a venire, un retroterra sempre fieramente esibito a partire dalla scelta di preferire per se stessi il titolo di “band”, in luogo dei più modaioli e creativi appellativi della galassia elettronica del tempo.
Da altre parti
Anche in questa attitudine crossover, quindi, la seconda opera dei Laika può essere vagliata senza troppe difficoltà come trip-hop di prima scelta, con un'enfasi speciale su quel -hop e le sue implicazioni dimenticate dalle seconde generazioni della scuola bristoliana. Eppure, quello che fa di “Sounds Of The Satellites” un'opera speciale è altro, ed è ancora una volta la preziosa “Prairie Dog” a mostrarlo, sfoderando nella seconda metà un meraviglioso crescendo, con un flauto redentore che sviluppa improvvisamente la composizione in verticale, in luogo del classico andamento rettilineo del genere.
Si svela quindi il vero viaggio (il trip-) di “Sounds Of The Satellites”, un viaggio più sottile, pluri-direzionale, che ascende simbolicamente alla volta di associazioni stellari ignote e inebrianti, mentre un altro tipo di energia viene proiettato verso l'intimo, verso l'investigazione e il superamento di uno stato di precarietà emotiva per accedere al punto d'equilibrio, in quello stato dove movimento e stasi non hanno più senso alcuno ed è possibile scoprire l'immensità nella frazione di un momento.
Non potrebbe essere raccontato con altre parole quel flusso di coscienza cosmico di nome “Breather”: melanconia sintetica ai limiti del collasso nervoso, corre serrata proprio sul campionamento di un respiro in apparente dinamismo, mentre Fiedler fa il conto doloroso dei sogni rinnegati e delle porte non aperte, gravitando infine sulle eterne domande sul tempo e l'eternità. E il tempo sembra effettivamente annullarsi in quelle bellissime confluenze di synth in palpitazione, che si distendono in una lunga coda di quattro minuti – a parere del timer – ma di suggestione potenzialmente infinita.
È in questa luce, in questo percorso di distacco progressivo, che l'orbita allungata di “Sounds Of The Satellites” trova un senso d'insieme e unità, pur rifuggendo ogni soluzione definitiva. La quieta digressione metafisica di “Spooky Rhodes” e la calma assoluta di “Dirty Feet”, che spegne anche gli onnipresenti poliritmi, infatti, hanno tutta l'aria di essere solo temporanei. Quando l'equilibrio pare equanimamente ristabilito, il luccicante nevischio nuovamente placato sul fondo del nostro amuleto, ecco che arriva dal nulla un disturbante comunicato radio sulle sorti di Laika, proprio il cagnolino vittima tragicomica di tutta un'era di smisurata ambizione cosmica del bipede implume e omaggio obbligato dell'intera esperienza di Fiedler e soci.
“Sounds Of The Satellites” si presenta quindi come il fotogramma più completo e finito del percorso Laika, una posizione lungimirante nel suo sguardo dislocato nel retro e a un tempo lucidamente nell'avanti da meritarsi senza troppa meraviglia l'accoglienza tiepida e incerta riservatale dai media alla sua immediata comparsa. “Sounds Of The Satellites” brilla di fatto come sistema a sé, come formula sonora inedita (e rivalutata in pieno solo in tempi relativamente recenti) e come possibilità di un processo introspettivo necessario, configurandosi come surrogato provvisorio, in attesa di prenotarvi per il prossimo esosissimo viaggio in orbita lunare, oppure per il ritiro Vipassana più vicino.
I Laika firmavano così una delle opere più rappresentative di un'eccitante era di transizione.
There are things I can't explain
Why a seashell loves the sand
Why tornadoes love the plains
Why my dreams have lost their wings...
06/07/2014