La Camellia sinensis è la pianta del tè, ed è coltivata soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali del pianeta. Formata da foglie i cui germogli racchiudono l'essenza della storica bevanda, l'età delle medesime risulta fondamentale per garantire la varietà dei sapori, quella diversità che tutti conosciamo fin dall'antichità. La maturazione assume quindi un ruolo chiave nella raccolta, così come i vari trattamenti che la seguono. Ebbene, è in questo particolare processo naturale che Ivano Fossati trova uno dei tanti ganci metaforici contenuti ne "La pianta del tè", decimo disco di una carriera luminosissima, tra le più intense, proficue e versatili della canzone d'autore italiana.
Il viaggio umano e artistico del cantautore genovese nel 1988 vede la sua meta più lontana. L'amore per la world music raggiunge vette assolate, mentre la sensibilità del musicista si espande all'inverosimile, toccando gli angoli più remoti del pianeta e di una coscienza critica formidabile, capace di scandagliare interi tessuti della società, così come di accarezzare l'animo umano con una visione personale, lungimirante e totalizzante delle cose. Un album che segna l'avvio della stagione d'oro della sua carriera artistica. Ma soprattutto la definitiva conferma di Fossati come autore colto e musicista di prim'ordine. La prova più lampante della distanza da certe spigolosità degli esordi è il confronto tra "La costruzione di un amore" nella contorta e tormentata versione originale con quella cristallina e impeccabile di questo capolavoro, che è nel complesso perfetto nell'orchestrazione, e alterna originali e colti spunti etnici, intrisi di spezie orientali, a composizioni più classicamente occidentali, il tutto sostenuto da un'inventiva in stato di grazia e da una cura quasi maniacale dei particolari. Basta e avanza per compensare certi eccessivi ermetismi dei testi, che sono e saranno sempre ricorrenti nel suo canzoniere.
Capolavoro nel capolavoro è proprio l'introduttiva title track, "La pianta del tè" (parte I e II), il cui fascino notturno, lunare e misterioso è reso dal contrasto tra i vellutati flauti di canna andini e le percussioni ostinate e inquietanti, ma mai invadenti. Già stupenda la prima parte, ma la seconda raggiunge vette da brivido, con i flauti di Una Ramos che scatenano tutto il loro potere magico, trasportando davvero in cima a qualche picco cileno o peruviano. Analoga ambientazione notturna ha "La volpe", cupa filastrocca dove non stona neanche il tipico belato di Teresa De Sio, qui usato come appropriato controcanto alla secca voce di Fossati. È il brano più esotico del lotto, di certo tra i più mediterranei.
Momento di profonda malinconia è invece "L'uomo coi capelli da ragazzo", dove il clima di solitudine e malattia è reso dall'estrema tensione creata da un basso che ronza insistentemente e dall'implacabile ripetizione di una nota di tastiera a intervallo fisso: un "effetto goccia" che copre tutto il brano, mentre le parole segnalano rotte che non si possono dare, in quello che risulta essere "nient'altro" che un nichilismo espanso di un uomo che guarda il tempo con compostezza e sopraggiunta rassegnazione:
Qui il ricordo non è uomoUna consapevolezza che cozza con l'eterna melanconia riflessa in uno sguardo che per l'occasione oltrepassa più volte l’orizzonte, cercando nuove oasi dell'io, nuove fughe interiori. La foto in copertina posta sopra un'antica cartina geografica è l'ideale cornice visiva di un album che celebra il viaggio, sia fisico che figurato, come azione salvifica da compiere. Fossati ha in mano la propria bussola e sa perfettamente leggerla. Conosce le tempeste del proprio cuore e i venti che agitano il suo cammino. Un trip trasognato, il cui diario di bordo è ricco di suggestioni.
E il più delle volte nemmeno donna
Qui è il tempo che sta seduto
A mettere i nnumeri in colonna
Non per tracciare una rotta
Che non si può dare una via
Quando ad un acuto dolore segue
Una più acuta fantasia
L'uomo avrà quarant'anni
E i capelli da ragazzo
In camera ha un ritratto che
Si è fatto da sé
23/06/2019