Teresa De Sio

La voce, la maschera e la tradizione

intervista di Federico Torre

Abbiamo incontrato Teresa De Sio in occasione della partenza del progetto dal titolo Pensiero Meridiano che dopo la chiusura del tour dedicato a Pino Daniele la vedrà impegnata in un nuovo viaggio con un ensemble d’eccezione, composto da Sasà Flauto alle chitarre, Pasquale Angelini alla batteria e Vittorio Longobardi al basso. Un trio scelto per ritrovare una musica diretta, fatta di quelle sonorità ruvide che sono alla base del “rock del popolo”, per usare l’espressione con cui Teresa chiama il folk.
L’autrice ci ha aperto le porte della sua casa romana e ci ha accolto in un salone pieno di oggetti, fatto di disordine colto, di strumenti musicali sparpagliati che trasmettevano il senso di una vita passata a scrivere e a dedicare tutto completamente alla musica. Ogni parola ci è sembrata emergesse dal profondo, da lontano, ragionata, scelta, con un rigore e una sensibilità propri di una scrittrice. Del resto il cambiamento di Teresa è in atto, e i due romanzi pubblicati da Einaudi (Metti il diavolo a ballare - 2009 - e L’attentissima - 2015) la trasformano e la consacrano in una ricercatrice a tutto tondo, portavoce di un pensiero meridionale non più soltanto cantato.

Ascoltando i tuoi dischi in successione, Teresa, si sente chiaro lo sviluppo di un cammino. Nell’arco della tua carriera si registra soprattutto, oltre che un cambiamento negli arrangiamenti, una progressiva trasformazione della voce, che è passata da essere lunga e distesa, e quasi lirica, ad arricciata e contratta. Cosa ne pensi? Ti riconosci in questo spostamento dal “canto” “all’espressione”?
Sì. Effettivamente la mia voce è cambiata. Intanto perché, a differenza di quello che fanno molti altri cantanti che mantengono la voce in uno stato frizzato in una certa età giovanile, io ho lasciato che la mia voce cambiasse, come del resto cambia il mio corpo, perché la voce è parte integrante del corpo. E poi da un certo punto in poi, è vero, ho iniziato a usare la voce più per “raccontare” che per cantare.

Mi viene in mente subito Fabrizio De André pensando alla parola che si fa strumento per raccontare, tra l’altro il tuo lavoro di scavo per certi versi mi pare simile al suo, inteso come un viaggio in profondità, nella voce, nella musica e nella tradizione. Senti qualche affinità con lui?
Io sono cresciuta con le canzoni di Fabrizio e quindi lui in qualche maniera mi ha plasmata. È entrato nella mia vita come un maestro assoluto. Quando ero ragazzina imparavo a suonare le sue canzoni, e mi sembrava che dicendo quelle parole riuscisse a dire qualcosa su di me che non avrei saputo dire senza le sue parole. E questa, secondo me, è la grandezza di un autore, quando riesci a parlare attraverso le sue parole.
Quindi parlare di affinità è poco. Sentivo un vero e proprio collegamento. E mai avrei pensato che da grande non solo avrei intrapreso il cammino nella musica, ma lo avrei incontrato, e avrei avuto con lui un rapporto di amicizia e collaborazione, fino ad arrivare addirittura a cantare in una canzone interamente scritta da me: “Un libero cercare”. Per certi versi poi il lavoro che lui ha fatto sulla tradizione, e sul dialetto, un tipo di lavoro che lui iniziò negli anni Ottanta che era un’epoca in cui io già facevo quel tipo di ricerca, ci ha permesso di trovarci per strada e riconoscere l’uno nell’altra un’affinità.

Teresa De SioDa cosa nasce la tua scelta di reinterpretare “Creuza de ma in napoletano?
È stata Dori Ghezzi a propormelo. E mi ricordo che quando me lo suggerì, le dissi che era impossibile, che non si poteva fare, che era un’impresa troppo difficile, ma poi quest’idea ha iniziato a lavorare dentro di me, e devo dire che tradurre (anche se tradurre non è una parola del tutto corretta, sarebbe meglio dire “trasportare”), dal genovese al napoletano, quindi da una lingua a un’altra lingua, è stata una delle imprese più perigliose della mia carriera di autrice. Traducendo ho cercato di replicare tutte le assonanze, oltre alla metrica naturalmente, ma quello che è stato veramente difficile è stato dover immergermi in un mondo, perché i dialetti sono mondi, o meglio sistemi diversi di segni che non traducono lo stesso universo che raccontiamo quando usiamo l’italiano. I dialetti sono sistemi che rimandano già direttamente a mondi diversi. Così quando mi sono trovata a dover trasportare il testo di “Creuza de ma” dal genovese al napoletano è stato come fare un tuffo nel mare di Genova, diventare una sirena, andare sott’acqua, e entrare dentro questo mondo magmatico fatto di significati magici. “Creuza” è un affresco misterioso, in cui la valenza poetica a differenza di tutte le altre canzoni di Fabrizio è più forte di quella narrativa. È un mondo oscuro da decifrare, come sempre del resto è la poesia più profonda. Ed è stato un lavoro che mi ha impegnata e toccata molto, e quasi trasformata: una vera esperienza. E il risultato alla fine è stato naturale, anche se non nascondo che quando l’ho cantata a Genova la prima volta ho avuto un po’ paura. E poi sono molto orgogliosa del fatto che adesso quella canzone, nella mia versione, porta anche la mia firma, cioè è firmata De André-Pagani-De Sio.

Si registra nelle tue interpretazioni un sempre più evidente diventare maschera, quasi si inserisse una componente teatrale nel tuo lavoro che nei primi dischi non c’era, o forse passava sotto traccia…
Io penso che la musica le tolga le maschere, non le metta, e che ti mostri per quello che sei. E io in questo senso cerco di non avere nessuna maschera. Capisco però quello di cui tu parli, riferendoti a un mio approccio teatrale, e probabilmente al fatto che mi sono occupata molto in questi anni di musica popolare, che è un genere dove le maschere hanno un peso. D’altro canto la maschera è una cosa interessante, perché è un simbolo dentro cui si riassume una storia popolare. Anzi, è l’unico “luogo di simbolo”, a dire il vero, perché una volta la cultura popolare riassumeva l’arcano nella simbologia dei rituali e nelle narrazioni orali, mentre oggi nel nostro vivere quotidiano l’arcano non è più rappresentato da niente.
Nel mondo in cui viviamo oggi l’unica cosa che simboleggia il vivere sono gli oggetti. E in questo senso allora mi piace poter recuperare il concetto di maschera come simbologia di un mondo che va spegnendosi.

Sei d’accordo sul fatto che nell’interpretazione della musica napoletana ci debba essere sempre una componente di recitazione? Come se in un certo senso tutto debba essere “esagerato”?
Questo purtroppo è quello che vogliono gli altri. È uno dei tanti luoghi comuni sulla napoletanità. Diciamo che Napoli è sempre stato un luogo di combattimento, e nello stesso tempo d’avanguardia, dove succedevano le cose prima che succedessero altrove. E se è vero che questo “evidenziatore” che c’è nel modo di essere dei napoletani fa pensare a un’esagerazione, io credo che più che di esagerazione si debba parlare di una capacità di precorrere i tempi.

Teresa De SioDalla musica popolare e meridionale è come se emergesse una grande anima. Un’anima da trasmettere, che in un certo senso gli attori e i cantanti che se ne occupano si caricano sulle spalle, rinunciando magari al proprio progetto personale per collegarsi a una dimensione di “servizio”. Cosa pensi di questo diffondere un patrimonio e in un certo senso avere il peso di una responsabilità?
Quello che dici è vero, ma si tratta di unpeso a cui personalmente ho sempre cercato di sottrarmi. È vero che i musicisti di musica popolare hanno questa “missione” di “perpetuare l’eterno”, ma io penso che si possa stare nella musica popolare anche in modo meno radicale. È vero che esiste l’approccio filologico di chi cerca di riproporre brani in maniera non manipolata per portare avanti una sorta di “tradizione pura”, anche se poi c’è da dire che in musica la tradizione pura è un concetto molto fragile, in quanto la tradizione stessa non è fatta d’altro che di ricerche che al momento della loro nascita partivano come sperimentazioni e che poi si sono semplicemente sedimentate nel corso degli anni. E comunque io questo tipo di lavoro non l’ho mai fatto, a parte forse quando con Musica Nova ho realizzato il mio disco d’esordio “Villanelle popolaresche del Cinquecento”.
La verità èche da quando ho cominciato a scrivere, e smettere quindi di essere soltanto un’interprete, la mia visione della musica è cambiata, e si è allargata, e la musica popolare è diventata qualcosa che potrei chiamare una base sulla quale costruire il mio lavoro e dalla quale prendere lo slancio. In questo senso a volte mi sento come una mongolfiera che con la musica può andare lontanissimo, ma con un’ancora saldamente piantata a terra, un’ancora che è costituita dalle radici dalle quali provengo. La tradizione mi permette di non brancolare mai nel buio, e senza questa tradizione probabilmente non avrei mai fatto lavoro il lavoro che faccio, ma allo stesso tempo è una qualcosa che non mi basta, perché io vengo dalla musica popolare ma non sono una musicista di musica popolare. Ascolto tantissima musica, tantissime altre cose, che poi cerco di miscelare insieme.

Ti sei occupata spesso anche di musica salentina, quali sono le differenze con la tradizione napoletana? Nell’intonazione del canto musica salentina è riscontrabile una sorta di “lamento” che spesso è mono tono, cioè sulla stessa linea, mentre in quella napoletana più che di lamento è come se si dovesse parlare di “strazio”, perché spesso c’è un culmine, che va verso l’alto, che esplode… cosa ne pensi?
Per me la musica popolare non è mai un lamento, ma è sempre un grido, un luogo di combattimento. Come il rock. E infatti mi piace definire il folk come “il rock del popolo”, perché entrambi i generi si avvalgono del ritmo e del suo potere, che è la struttura portante non soltanto della musica, ma delle intere nostre esistenze. Senza ritmo saremmo sospesi in un nulla, perché il ritmo è il tempo. Noi siamo ritmo. Quello che noi stiamo facendo adesso, parlare, gesticolare, è ritmo, energia. E il folk, come il rock, è pervaso da questo. Del resto, se mi dovessi definire come artista, non mi definirei una musicista folk, ma una musicista folk-rock. Per il resto posso dire che c’è una differenza fortissima fra la musica delle altre regioni del Sud e quella napoletana, dovuta al fatto che Napoli è stata la capitale di un Regno e quindi la musica popolare è stata trascritta da trascrittori di corte, ed è stata oggetto di studio e di rielaborazioni continue nel corso dei secoli. Una musica “manipolata”, insomma, oggetto di studio di grandi autori, e mischiata con contaminazioni diverse, influenzata dalle varie dominazioni che si sono succedute, quella turca, quella spagnola, quella francese, e, per ultima, quella americana.
Per questi motivi non ha molti eguali nel resto del mondo, a parte forse la musica brasiliana, che per certi versi le assomiglia: una musica che è contemporaneamente colta, composta da autori colti, ma anche popolare, cioè patrimonio della gente. Canzoni come “I’ te vurria vasà” sono state scritte da poeti altissimi e insieme cantate dalle signore del basso napoletano, in una contaminazione fra alto e basso, fra colto e popolare, che è un fenomeno assolutamente unico.
La musica salentina, invece, è rimasta molto più relegata al mondo contadino, e quindi si è poco evoluta, o meglio, si è replicata quasi soltanto attraverso la tradizione orale. Questa a mio avviso è la differenza fondamentale fra due tradizioni.

Teresa De Sio - Pino DanieleE la scelta di dedicare un intero disco alla reinterpretazione di Pino Daniele?
Premetto che il mio mestiere non è quello di cantante, ma quello di autrice e di compositrice, che è un mestiere difficile e duro. Il resto per me è divertimento e piacere, un’avventura fatta di incontri con gli altri. In questo senso si colloca la mia reinterpretazione di Pino Daniele, che quindi ho vissuto come una pausa, una parentesi quasi rilassante che mi ha consentito di calarmi in altre dimensioni.
La dimensione di Pino poi - va detto- è vicinissima alla mia. Lui è stato un vero e proprio apripista, che, assieme a quei gruppi napoletani che operavano negli anni Settanta, ha introdotto una ventata di novità, portando l’ultima delle dominazioni che hanno pervaso la musica napoletana, cioè quella americana. In più, a differenza degli altri, questa operazione lui l’ha fatta con le canzoni, e quindi con lo strumento più pervasivo che esista, perché la forma-canzone è uno strumento potentissimo che consente una comunicazione immediata.
Io dico sempre che per spiegare al meglio quella che è stata l’innovazione di Pino, bisognerebbe pensarlo come un contadino, che ha tracciato un solco, dentro al quale altri musicisti poi hanno messo il loro seme e hanno fatto nascere la propria pianta, che a sua volta ha contribuito a far nascere un campo seminato a musica…
Inoltre mi piaceva l’idea di interpretare Pino come un classico, perché credo che a tutti gli effetti possa essere considerato un classico. E come diceva Calvino “un classico non smette mai di dire la cosa che ha da dire”. La sua musica può essere fatta risuonare in mille modi.
Da un punto di vista tecnico, ho cercato di trasportare la parte legata alla sua scrittura, cioè le sue parole e la sua musica, nel mio mondo, che è sicuramente più folk-rock rispetto al suo, che invece è fatto di arrangiamenti blues e di sonorità vicine alla musica afro-americana.

Prendendo spunto da tutte queste contaminazioni di cui parli, mi viene da pensare come ci sia una componente zingara nella tua musica, itinerante…
Assolutamente sì. Nella musica ho fatto un tragitto girovago. Nella mia carriera sono partita dal folk e sono arrivata a fare dischi -come tutti sanno- molto legati al pop, uscendo quindi dall’ambito specifico da cui ero partita per arrivare ad abbracciare panorami che riguardano addirittura la musica elettronica. Ma non è soltanto questo. Credo che in generale, sempre, nel mio mestiere si debba essere girovaghi, perché la musica non è soltanto una visione della realtà, ma è un luogo onirico, si potrebbe dire che la musica è il mondo sognato dagli angeli… Un mondo in cui occorre navigare, girovagare, aprire porte, incontrare... e non a caso la mia carriera è stata segnata da incontri decisivi, da Fabrizio De André a Brian Eno, fino al grande Paul Buckmaster che curò gli arrangiamenti del mio “Toledo e regina”del 1986, e che - tanto per fare qualche accenno alla sua immensa carriera – arrangiò “Your Song” di Elton John, oltre a dischi di Miles Davis, dei Rolling Stonese dei Guns’n’roses, per cui decisamente riuscire a condividere qualcosa con persone del genere è un modo di essere zingara molto gratificante...

E il tuo nuovo progetto dal titolo “Pensiero meridiano” in cosa consisterà?
“Pensiero Meridiano” nasce dall’idea di creare un power trio, forte, elettrico, composto da basso, batteria e chitarra. Sarà un modo di raccontare quello che ho fatto in questi anni, e in generale un modo per raccontare il Sud, attraverso le mie canzoni e quelle di tutti i grandissimi autori della musica meridionale, da Pino Daniele a Domenico Modugno, a Matteo Salvatore, con l’intento di raccontare gli stessi universi di cui parlano i poeti, i filosofi, gli scrittori, ma con il linguaggio della musica.
Si tratta di un progetto ambizioso che stiamo già provando ma che partirà ufficialmente alla conclusione del tour dedicato a “Teresa canta Pino”, che a sua volta si concluderà il 16 febbraio al Teatro Politeama di Napoli.

Discografia

MUSICANOVA
Garofano d'ammore (Philips, 1976)
Musicanova (Philips, 1978)
Quanno turnammo a nascere (Canzoni sulle quattro stagioni di Eugenio Bennato e Carlo d'Angiò) (Philips, 1979)
TERESA DE SIO
Villanelle Popolaresche del '500 (Philips, 1978)
Sulla terra sulla luna (Philips, 1980)
Teresa De Sio (Philips, 1982)
Tre (Philips, 1983)
Africana (Philips, 1985)
Toledo e regina (Fonit Cetra, 1986)
Sindarella suite (Philips, 1988)
Ombre rosse (Philips, 1991)
La mappa del nuovo mondo (Cgd, 1993)
Un libero cercare (Cgd, 1995)
Primo viene l'amore (live, Cgd, 1997)
A Sud! A Sud! (Lucente/Venus Dischi, 2004)
Sacco e fuoco (Core, 2007)
Tutto cambia (Core, 2011)
Teresa canta Pino (Universal Music, 2017)
Pietra miliare
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