A volte basta una semplice idea per scatenare convergenze impensate, portare a sinergie ben oltre il (già alto) calibro dei partecipanti. Non sarà magari l'idea più rivoluzionaria, potrà addirittura apparire in netta controtendenza rispetto al contesto in cui si inserisce, eppure per vie traverse finisce col rappresentare un unicum che, meglio di tanti progetti coevi, evidenzia umori, attitudini, impronte di una stagione intera. Certo, in un decennio magico per la musica italiana come gli anni Settanta idee simili in fondo non sono state poche, eppure ben poco può accostarsi a quanto sotteso all'ideazione e sviluppo di "La voglia la pazzia l'incoscienza l'allegria".
Frutto di un ricercato incontro tra Italia e Brasile, con l'esperienza autoriale del "Poetinha" Vinicius de Moraes e la sottigliezza chitarristica del sodale Toquinho alla corte di Ornella Vanoni, già allora Signora della canzone italiana, l'album è il tassello magico che incornicia una carriera già costellata da successi memorabili e traguardi di rilievo, un saggio di espressività e interpretazione che scava nel profondo di una voce dalle mille sottigliezze, perfettamente a suo agio nell'incessante dinamismo dell'emozione. E pensare che la storia pareva inizialmente volerla escludere da un simile banchetto.
Altre erano le interpreti alle quali aveva pensato Sergio Bardotti, protagonista di spicco della storia della musica leggera in virtù di una polivalenza che lo ha visto per più di tre decenni scrivere, produrre per molti dei più grandi nomi del firmamento italiano. Tra i primi nel Belpaese a intuire il valore artistico del concept album, già alle prese con produzioni che spingevano chiaramente verso quella direzione (suo il coordinamento assieme a Roberto Dané per "Non a denaro non all'amore né al cielo" di Fabrizio De André), nel 1976 era più che pronto a imbarcarsi in un sogno a lungo serbato, fino ad allora però debitamente tenuto in un cassetto chiuso.
Ben versato nel portoghese, tanto da tradurre maestri della canzone brasiliana già dagli anni Sessanta e scrivere di propria mano i testi di "Per un pugno di samba" di Sua Maestà Chico Buarque, covava da tempo il desiderio di adattare all'italiano un campionario scelto di classici della bossa nova, curando le traduzioni dei testi e la direzione generale. Mancava insomma la voce che potesse fungere da tramite al progetto, la figura che donasse vita agli spartiti; una voce esperta, di peso, dotata del carisma e della versatilità necessarie per approfondire le profonde suggestioni emotive di un genere che della saudade fa il suo vero caposaldo.
I nomi in ballo sono i più disparati: si pensa a Mina, vero e proprio camaleonte ma tutto sommato troppo enfatica per calarsi convintamente in un genere così denso di sottigliezze; si considera poi Anna Identici, da qualche anno smarcatasi dalla leggerezza degli esordi per abbracciare la musica popolare e un più coinvolto impegno sociale. Per arrivare a contemplare il nome di Ornella Vanoni, che pure anche in tempi recenti aveva mostrato di sapersi muovere nei linguaggi di una Nara Leão o di una Maria Bethania (il bestseller "Dettagli" del 1973 si apre con la title track, delicatissimo adattamento in italiano di "Detalhes" di Roberto Carlos) e con cui lo stesso Bardotti aveva collaborato in precedenza (sua la produzione di "A un certo punto....", disco inaugurale della Vanilla, etichetta personale della cantante), si passa da diversi ripensamenti e rifiuti, come se la sola idea di un simile album suscitasse terrore panico.
Forte di un'indipendenza e di un potere decisionale che non ha minimamente scalfito la popolarità e il potere provocatorio della sua immagine, la cantante si imbarca nel progetto con convinto entusiasmo, prendendosi il tempo per conoscere gli altri due lati di un triangolo che al completo farà solo scintille.
Nel parlare di "La voglia la pazzia...." si fa sempre menzione della velocità delle sessioni, di registrazioni in presa diretta che quasi azzerano gli stacchi da un brano all'altro, come se fossero parti coerenti di una suite progressiva. Senza i quattro mesi di scambi, conversazioni, visite e favori reciproci, la sinergia tra Vanoni, de Moraes e Toquinho innegabilmente non sarebbe stata la stessa, il risultato avrebbe restituito un'immagine ben più fredda, appannata. Certo, l'incentivo a una così lunga frequentazione con quelli che sono amici storici di Bardotti (assieme già nel '69 per l'emblematico "La vita, amico, è l'arte dell'incontro", che vede nientemeno che Giuseppe Ungaretti e l'autore brasiliano collaborare alla stesura di testi affidati alla voce di Sergio Endrigo) trova sponda anche nella difficile situazione politica brasiliana, da tempo ben poco conciliante nei confronti di voci critiche, tale da spingerli a frequenti viaggi oltre confine. È però così che l'approfondimento, la necessaria intesa, rievocata sempre con grande affetto dalla stessa Vanoni, prende piede, che il gioco di sguardi e rimandi cresce e prolifera, portando quindi allo snello sviluppo di un album articolato con naturalezza impressionante.
Agile collezione di brani selezionati dal già fittissimo repertorio bossa nova, non necessariamente limitati ai pezzi autografi di de Moraes, che pure ha contribuito a sviluppare e diffondere in giro per il mondo (a nome suo e di Antônio Carlos Jobim le prime registrazioni del genere, nel fondamentale "Canção do amor demais" di Elizete Cardoso), il disco disegna una traiettoria che abbraccia con un guanto passione, rimpianto, svago e fugaci interventi letterari, con una delicatezza e un brio che i tre, assieme ai pochi musicisti di contorno (Azeitona al basso e Mutinho alla sezione ritmica), sviluppano con estrema intimità, quasi fosse un ritrovo spontaneo, una serata trascorsa tra amici fidati.
È anche per questo che gli arrangiamenti a cura di Gianfranco Bardotti (sotto la cui cura sono passati tutti i grandi degli anni Settanta e Ottanta) aggiunti in un secondo momento assieme alle parti corali, si mostrano così rispettosi dell'intesa vincente dei tre attori principali, circoscrivono i passi a tre con un tenerissimo abbraccio, scevro di barocchismi o inopportuni slanci sonori. I riflettori, per quanto opportunamente affievoliti, stanno ben puntati dove si svolge l'azione: da lì non si scappa.
Perché scappare d'altronde? La stessa "Senza paura" ci invita, col suo fare un po' capriccioso un po' nostalgico, ad abbracciare il senso di coraggio che ci ha contraddistinto da bambini, a smettere di provare timore per un futuro che in fondo continuerà a scapparci dalle mani. Un'apertura che è come un dipinto: Vanoni e Toquinho rendono la ricercata verbosità delle strofe leggiadra come una filastrocca, la chitarra del secondo si muove agile, divertita come un incanto a mezz'aria, rigore e finezza per uno dei massimi chitarristi del genere. In questo senso il lavoro di produzione accentua la sofisticata ricerca espressiva dei due, il loro ballo accolto in un vibrante botta e risposta corale, atto a sfinare ulteriormente ogni indizio di malinconia. Un attacco esemplare per l'album, che però cambia completamente pagina già al secondo brano, incorniciando una delle interpretazioni più mirabili di Vanoni.
Una brevissima apertura di legni, qualche corda pizzicata, e "tutto il piacere, tutto il martirio di una passione immensa" precipita immediatamente ogni rilassatezza verso il più assoluto abbandono, il rimpianto di un amore appassito, strappato come i petali di una rosa lacerata. La formazione jazz di Vanoni, il suo canto pieno di quella sottigliezza che si infiltra nelle parole e nel loro senso sono il perfetto veicolo di un lirismo che nell'abbandono, nel rimpianto, ha trovato alcuni dei suoi temi di cari.
"Samba in preludio", tra le canzoni più celebri incise dal Poetinha (ricordiamo la versione registrata da Maria Creuza) è l'ennesima dimostrazione di un'interprete che capta perfettamente le vibrazioni tese dietro a un messaggio, legge l'amore e i dubbi che sa scatenare, un lamento alla Luna imperniato sui versi grevi di de Moraes, tradotti da un Bardotti che esalta l'universale semplicità di un distacco ancora non compiuto eppure pienamente possibile.
Se "Samba della rosa" accoglie la desolazione de "La rosa sfogliata" trasformandola in un trascinante ostinato di riferimenti e simbologie femminee, "La voglia la pazzia", incontestabile hitdel disco, tracima di vibrante energia carioca, il brio di Rio de Janeiro riassunto in un festante tentativo di congelare un attimo, un istante di pura gioia, prima che qualsivoglia esitazione possa rovinarne la bellezza. Solo a quel punto si potrà convintamente recitare:
A questo puntoMeno interessato alla comunicazione pop, in compenso ben più carico di significati poetici grazie ai vari recitativi di de Moraes spalmati con grande maestria fuori e dentro i vari brani, il lato B è banco di prova per più audaci passi a due, carezze in punta di chitarra, passaggi di smagliante forza narrativa, sciorinati con fluire progressivo. Quasi profetica, l'apertura di "Semaforo rosso" parla perfettamente dello sfilacciarsi di relazioni umane perse tra mille impegni e "Scusami la fretta, è la legge di tutti gli affari...", un coro appena pronunciato a sottolineare un arrivederci che pare più un addio, una sorta di "Eclissi" d'Antonioni traslata in musica. Ed è qui che l'assenza prende il posto d'onore, attraversa poesie e brani con un filo di accorata disperazione, che solo una lieve speranza tende a stemperare.
Buonanotte all'incertezza
Ai problemi all'amarezza
Sento il carnevale entrare in me.
E sento crescere la voglia, la pazzia
L'incoscienza e l'allegria
Di morir d'amore insieme a te
24/07/2022