Anni di collaborazioni di prestigio (ricordiamo quelle con mostri sacri come Jaki Liebezeit, Harold Budd, Bill Laswell e Brian Eno) e di oscure sperimentazioni (nel recente passato del nostro anche un concept album su William Blake) non hanno intaccato l'eterno, viscerale amore di Jah Wobble (all'anagrafe John Wardle) per il dub e per una forma musicale più diretta e comunicativa. Non a caso al mixer c'è Mark Lusardi, già tecnico del suono per The Orb e Duran Duran. Da questa rinnovata necessità espressiva nasce "Mu", ultimo anello della lunga catena di album solisti rilasciati dal musicista sin dal 1980, anno in cui abbandonò i PIL, con i quali si impose come il bassista rock più innovativo e originale mai apparso sulla scena, e nei quali già era fortemente definito il suo gusto per ritmiche atmosferiche, quasi "lounge", che dava ulteriore spessore straniante al loro inimitabile stile post-punk.
Jah nel frattempo si è dato allo zen e alla spiritualità orientale, e ovviamente la sua musica ne risente, per fortuna senza concedere troppo spazio a misticismi di moda e banalità varie. Gli effetti electro e le ritmiche sincopate di "Universal Dub" infatti catturano l'attenzione molto di più delle melodie mediorientali che solcano il brano. Più prevedibile invece un brano come "Samsara", nonostante gradevoli divagazioni jazzistiche e una indubbia contagiosa energia. E la lunga "Buddha Of Compassion", per quanto superbamente studiata e arrangiata, non presenta idee sufficienti a reggere una durata di oltre dieci minuti.
Il meglio va cercato, manco a dirlo, nei brani dove a dominare la scena è la sua titanica capacità espressiva al basso, sua vera e unica voce, che come sempre rinuncia a qualunque inutile virtuosismo concentrandosi invece nel disegnare pulsazioni subliminali che mandano al settimo cielo: quella che anima l'iniziale "Viking Funeral", per esempio, nonostante la scialba linea vocale; e quella che esalta la title track, senza dubbio l'episodio migliore dell'album col suo elegante mix di world-music e ambient-dub, mentre la palma del brano più originale va al fanta-reggae "New Mexico".
Tra alti e bassi (in particolare la techno-trance di terza mano "Love Comes, Love Goes"), il disco si fa apprezzare soprattutto per la qualità degli arrangiamenti (la cascata di effetti elettronici "Softwear" è particolarmente gradevole, anche se alla fine non arriva da nessuna parte). Ma l'ascolto si trascina senza eccessivi entusiasmi. Si sente che Jah ha trovato nuova linfa creativa e che ha ancora l'entusiasmo di un ragazzino; si sente anche però che il suo album non va al di là di un ascolto molto gradevole ma per la gran parte anonimo; un ottimo sottofondo "fashion", con occasionali punte di discreta suggestione e assemblato con innegabile classe e gusto. E ci mancherebbe altro. Ma la sostanza lascia poco soddisfatti.
24/05/2011