Quello tra Bettina Köster e Jessie Evans è uno di quegli incontri che sembrano scritti nel destino: due generazioni, due storie distanti e complementari.
La prima fu regina della new wave berlinese con le sue Malaria!, cult-band al femminile con pochi dischi all'attivo ma che molto ha influito sulle future generazioni: se persino le Chicks On Speed a loro tempo omaggiarono la band tedesca, in quel di San Francisco negli ultimi anni una splendida meteora a nome Vanishing ha consumato la sua parabola folgorante rivitalizzando proprio la darkwave nevrotica e futuristica di cui le Malaria! furono eroine.
E imponendo la front-woman Jessie Evans a nuova regina della scena, erede tanto di Siouxsie quanto, e soprattutto, della meno nota ma non certo meno carismatica Koster.
Eccole dunque insieme, Bettina e Jessie, entrambe cantanti e sassofoniste, entrambe compositrici creative, curiose ed eccentriche.
Autonervous, già side-project dei Vanishing, rinasce nel segno dell'anarchia e del disordine, con pochi mezzi a disposizione e tanta creatività, proprio come ai tempi che videro la nascita di Abwärts, Neubauten, Malaria! e tanti altri storici gruppi.
Bettina e Jessie, dunque: ma a mettere lo zampino nel progetto Autonervous c'è anche il terzo incomodo e si chiama Berlino.
La mitica, selvaggia Berlino post-punk da un lato; quella che Bettina ha vissuto e animato per poi fuggirne nel 1983 e stabilirsi a New York, dove è rimasta per quasi vent'anni lavorando nelle arti visive: dall'altra parte, la Berlino mutante e "tronica" degli ultimi anni che Jessie, californiana auto-esiliatasi dagli States, ha eletto a sua nuova patria.
L'una e l'altra ribollono nelle trame fragili e psicotiche di questo album creato e composto seguendo nessun'altra logica se non l'ispirazione del momento.
La materia che compone questo disco può venire accostata solo superficialmente al revival new wave o a più o meno recenti e plastificate mode "electro"; in realtà Autonervous vive in un limbo tutto suo, in un labirinto di direzioni incrociate e vicoli ciechi, in un contrasto di stili, rimandi e citazioni che strisciano e cambiano pelle senza sosta.
Beat semplici ma accattivanti, bassi pompati e velenosissimi, occasionali barriti di sax e le due voci che si divertono a giocare tra loro: non c'è altro eppure ogni canzone fa storia a sé.
Che si tratti dell'electro-clash vizioso di "Anchors Aweigh", delle deviazioni pop di "Hello Lovers" o dello splendido, perverso incubo "Sax New Age", l'unione tra le sensibilità e le esperienze delle due risulta naturale e impeccabile e i frutti che ne nascono sono deliziosamente malati e distorti: persino quando coverizzano un vecchio brano di Amanda Lear, "Gold". Nel gelido minimalismo di "Still Kaltes" e nel puro caos creativo che infiamma "Easter Bunny", si compie il matrimonio tra "vecchia" e "nuova" new wave.
I fantasmi dei vecchi Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire accompagnano Jessie in "Don't Wait", mentre alle libidini avant di "Prescription" spetta la chiusura di questo album così attraente, sporco e imperfetto.
Di quell'imperfezione giustificata dalla quantità, e qualità, di idee profuse in questi 35 disordinati minuti di irresistibili wet dreams incastrati tra passato e presente.
15/10/2006