Dietro questa strana sigla, che fa tanto modernariato da amici del giaguaro, si nasconde la collaborazione tra due musicisti, Sandro Perri proveniente dai Polmo Polpo e Craig Dunsmuir (Guitarkestra) che sono anche co-produttori dell’opera.
Vi tolgo la suspence da subito annunciandovi che questo disco si inserisce nella ricca e sorprendente marmaglia di gruppi che in questi anni hanno abilmente riscoperto il folk grazie alla possibilità di rielaborare la musica tradizionale americana filtrandola con un approccio prossimo a certa musica elettronica, ma che soprattutto si sono riappropriati di un modo di creare la musica corale e rituale tale da far perdere la distinzione tra il folk americano e la musica popolare di ben altre latitudini, un approccio che prende il testimone da un tipo di musica che ebbe modo di diffondersi pienamente già almeno 3 decenni orsono.
Anche il disco dei Glissandro 70 quindi presenta momenti che sembrano pensati per coinvolgere l’ascoltatore in rituali collettivi, evocazioni, cerimonie magari un po’ liberamente fricchettone.
Il brano di apertura, “Something”, si può considerare un’introduzione, dato che è anche il più breve, neanche 3 minuti: un folk dove le chitarre insistono sullo stesso arpeggio e gli aggeggi elettronici fanno da corredo, qualcosa come dei Books meno seri.
“Analogue Shantytown” invece inizia con un coro misto armonica/voxcoder in crescendo (che mi ha tanto ricordato la cover di “Autobahn” fatta da Senor Coconut), per poi proseguire con una specie di mantra che pare voglia unire al fraseggio rock-blues della chitarra la vocalità del samba brasiliano, in un crescendo efficace che rende il brano divertente.
Come quello che lo precede, anche “Bolan Muppets” è un pezzo che supera i 6 minuti, e, introduzione a parte, ripete la struttura di “Analogue Shantytown”: una frase di chitarra che fa da refrain per tutta la durata alla quale si aggiungono via via i cori, che qui devono molto al tribalismo africaneggiante, e altri elementi strumentali, come i loop elettronici, ovviamente percussioni, e chitarre che doppiano o sottolineano la melodia; la parte finale del pezzo però si semplifica e si pacifica.
“Portugal Rua Rua” è un altro omaggio a questa bella e musicale lingua che è il portoghese (anche se viene alternata al canonico inglese), e un altro brano che ambisce a ricreare le sensazioni dei precedenti, un avvolgente calore tropicale, un falò sulla spiaggia. “End West” è un pezzo molto più lungo e chiude l’album: aprendosi con un basso che ricorda assai il pezzo più celebre dei Liquid Liquid (sì, quello scopiazzato dai Duran Duran) ci si aspetterebbe qualcosa di più ballabile, invece il ritmo si mantiene costante e regolare.
Ma ciò che rende il brano particolare (nel contesto generale) sono gli elementi di disturbo, in questo caso a loro volta davvero disturbati, dato che effetti, voci (anche in giapponese), e strumenti vari compaiono in maniera irregolare, si sgretolano nel dipanarsi del brano, si inceppano; una variazione di registro nell’ambito dell’album che ci voleva, anche se magari non sortisce effetti straordinari. In definitiva una discreta prova per questo duo, che potrebbe sollazzare un ventaglio di ascoltatori che parte dagli amanti degli Animal Collective fino ai Talking Heads anni 80, e che presenta anche qualche peculiarità che gli dona un’identità propria.
03/04/2006