Quarto album per Gravenhurst, creatura artistica di Nick Talbot, autore che, dall'inizio del decennio in corso, ha seguito un percorso musicale dall'originaria impronta folk, gradualmente sviluppato secondo una sensibilità "elettrica", indubbiamente memore di esperienze spazianti dallo shoegaze al post-rock.
Dopo due album di folk etereo, a prevalenza acustica, e la "svolta" elettrica del precedente "Fires In Distant Buildings", il nuovo album dei Gravenhurst sembra animato dall'intento di compendiare in maniera coerente i tanti spunti già presenti nella loro discografia, alla ricerca di un punto d'equilibrio tra l'inafferrabile intimismo di un cantautorato dai tratti oscuri e un approccio più diretto e immediato, costellato da corpose asprezze elettriche, che nell'ultimo album disperdeva in parte la delicatezza di un songwriting e di un'interpretazione lieve e pervasa da un costante senso di stupore giovanile.
In "The Western Lands", Talbot non rinuncia a chitarre sferraglianti e turbini elettrici di pronto impatto, ma riesce a farle convivere con ritmiche sfumate e trame elettro-acustiche dal gusto desolatamente bucolico. Ma, se proprio si vogliono fare degli accostamenti, ascoltando i dieci brani qui compresi non viene da pensare tanto agli interpreti della più classica tradizione folk britannica, quanto invece all'inquietudine contemplativa degli Hood o di Piano Magic, band, quest'ultima, della quale Gravenhurst condividono qui sia le angosciose ambientazioni rurali delle loro opere più cinematiche, sia la sinistra preponderanza elettrica dell'ultimo "Part-Monster".
È tuttavia sorprendente come Talbot riesca a conciliare la rinnovata impostazione elettrica della maggior parte dei brani con la presenza quasi costante del suo limpido picking acustico, con melodie eteree e con ritmiche quasi sempre compassate, capaci di rendere ovattate persino le atmosfere dei brani caratterizzati da turbini elettrici più pronunciati ("Hollow Men" e l'incredibile cover "Farewell, Farewell"). Così, nel corso dell'album, si susseguono, senza stridenti contraddizioni, asprezze elettriche e melodie gentili, richiami al post-rock (in particolare in "Grand Union Canal") e soffusi accenni elettro-acustici ("Hourglass", "The Collector").
Ma, a prescindere dalle superfici sonore assunte di volta in volta dai brani, tutte le composizioni di Talbot (anche quelle strumentali) sono caratterizzate dalla continua ricerca di una sobria forma melodica che, senza cedere a prevedibili stilemi "indie-rock", riesce spesso a pervenire a risultati trascinanti e di sicuro impatto, come nel caso dei due brani opportunamente scelti come singoli, "Trust" e "Hollow Men".
Per quanto il retroterra artistico di Talbot ben poco abbia a che vedere con quello delle tante band che attualmente si rifanno a sonorità shoegaze, le chitarre e le melodie circolari di molti dei brani di "The Western Lands" non possono fare a meno di suscitare richiami a quell'esperienza e in particolare ai Pale Saints e alla loro irripetibile capacità di unire la delicatezza di melodie evanescenti a contesti sonori di asprezza temperata ed evanescente. Senza ricadere in retoriche emulative, i Gravenhurst riescono a calare i molteplici elementi della loro musica in un album dai toni autunnali, la cui grande efficacia espressiva ribadisce, al di là delle diverse forme assunte dai suoi brani, le capacità di scrittura di Nick Talbot e ritaglia alla band un posto particolare accanto ai più validi cantori del variopinto e malinconico grigiore campestre d'oltremanica.
19/09/2007