Strano destino quello di The Marigold, trio abruzzese composto da Marco Campitelli (voce, chitarra, tastiere, samples), Stefano Micolucci (basso e djembè) e Giovanni Lanci (percussioni), ormai attivo da qualche anno e conosciuto più che in patria in Francia, ove ha tenuto una serie di concerti ed è entrato in contatto con importanti artisti del fervido underground transalpino. Due esempi possono essere sufficienti a dimostrare la credibilità della band in Francia: la partecipazione di Campitelli alla seconda delle limitatissime compilation “Fugues” - accanto a nomi del calibro di Port-Royal, Balmorhea, Part Timer, Epic45 - e la fattiva collaborazione apportata al loro secondo lavoro niente meno che da Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust), artista a sua volta quasi di casa in Italia, come testimoniato da ultimo nell’interessante lavoro di L’Enfance Rouge.
Accostamenti e collaborazioni possono già essere sufficienti a delineare le coordinate entro le quali si muove la band, che prevedono robuste strutture elettriche incentrate su chitarre liquide, impetuose e talora dissonanti e visionari frammenti melodici dai contorni oscuri.
Noise, dark-wave e trame concettualmente “post-“ si fondono senza comprimersi a vicenda, in brani febbrili, a tratti percorsi da spasmi e spunti elettronici ma sempre giocati sul filo di una tensione claustrofobia, incentivata alla perfezione dagli apporti strumentali esterni alla band, che oltre alla costante presenza di Cambuzat (alla chitarra o alle tastiere, nonché alla voce nell’ottima “Mercury”) comprende anche quello di Umberto Palazzo in “Dogma”.
Si tratta di contributi senz'altro importanti, soprattutto per la ricchezza dell’impatto chitarristico dei brani, ma non decisivi, perché in questo lavoro i Marigold dimostrano di aver conseguito un importante equilibrio di scrittura in composizioni in continuo divenire, che anche nei passaggi inizialmente più riflessivi lasciano spazio a incursioni dissonanti il cui incedere è spesso reso marziale da ritmiche asciutte e linee di basso nervose.
La fluidità delle chitarre e le loro distorsioni che sovente scolorano in riverberi e feedback donano compattezza a un impianto compositivo misurato e quasi mai sfociante in un noise esplicito; le tentazioni post-rock sono avviluppate da un’aura oscura dal sapore piacevolmente eighties; le reminiscenze dark evitano con cura pedisseque citazioni di scuola Bauhaus, che pure ricorrono con discrezione in lontananza.
Su questi tre elementi principali si svolge un album nel quale è piacevole ritrovare sonorità note (dagli Slint ai Massimo Volume), proposte con gusto e freschezza e con un piglio deciso che, fortunatamente svincolato dall’urgenza di impressionare a tutti i costi, ben lascia sperare per il prossimo lavoro, previsto entro l’anno in corso.
24/04/2009