Due anni di silenzio ed ecco riapparire l’anagramma più celebre dell’indie-music, Adam Pierce rientra nei nostri radar dopo le contorsioni brasileire di “Obrigado Saudade” e gli intarsi islandesi di “Bem- Vinda Vontade”. In questo suo terzo lavoro, Pierce cerca di svincolarsi dall’attitudine, apparentemente confusa, di mescolare (talvolta sommariamente) qualsiasi suono etnico, world per intenderci, mediante una maggiore consolidazione stilistica della sua corposa strumentazione. L’appartenenza alla numerosa combriccola indie votata all’elettronica folcloristica e alle sovrapposizioni al laptop c’è ancora, esce fuori negli spazi vuoti del disco per poi disperdersi negli svariati andazzi di un nuovo paradigma percussivo, adattato con veemenza da Dog Scharin (June Of 44 e Codeine). A impreziosire il tutto, le solite collaborazioni vocali, da Leatitia Sadier degli Stereolab a Kristin Valtysdottir dei Mum, semplicemente perfette nelle diverse interpretazioni canore fornitegli dal Pierce, clamorosamente eterea la prima, gattina smarrita la seconda.
In questo omonimo disco il proprietario della Bubblecore vira verso nuove coordinate geografiche, “sporcandosi” spesso gli stivali di un infuocato terriccio messicano, vedi i controtempi cancuniani di “Satchelaise” e di “Snow”. Energico, malinconico e focoso, Pierce riassume nella sua terza tappa tutti i punti fermi della sua carriera, conciliando con maggiore maturità le esplorazioni in scala di David Grubbs e i tropicalismi di Arto Linsday.
Magari qualche anno fa era impensabile una “The Nights After Fiction”, sintesi perfetta dei suoi intenti: dopo alcuni secondi di pacatezza acustica, sorretti a stento da un beat che vuole a tutti i costi prendere il sopravvento, il ritmo volge a favore di una danza acquerellata e maliziosa. L’evolversi dell’introduttiva “Sneaky Red” aggiunge ancor più irrequietezza a questa nuova tendenza, è come se Pierce avesse deciso di velocizzare i suoi pezzi con una maggiore sintonia “rock” chitarra/batteria, senza rinunciare alle notevoli sfumature strumentali, aggeggi non identificati, che da sempre contraddistinguono i vicoli dei suoi tracciati sonori.
Dalla frenesia iniziale della già citata apertura si passa in un istante al disincanto cristallino di “Tales Of Las Negras”, traccia capolavoro del disco, dove l’incontro tra il percussionismo timidamente irato di Scharin e l’accavallamento vocale, assorto di Pierce e della Sadier formano un trittico di devastante sensualità indietronica, modello ineccepibile della nuova libidine elettrofolcloristica. Più diafana la collaborazione con la Valtysdottir, cadenzata ad hoc dal nostro con uno sfavillante arpeggio elettronico in coda. Nei primi attimi di “Circe None” si cerca di trovare con calma la via d’uscita da un delicato frastuono di sfarfallii elettrici, accostabili alle recenti esplorazioni di Cecile Scott (Colleen), rimanendo intrappolati fino all’ultimo battito in un labirinto di esternazioni acustiche dall’effetto ipnotico.
Mice Parade ha nuovamente fatto centro, anagrammando con nuova grazia anche le spettacolari combinazioni del suo delicato progetto acustico. Non ci resta, quindi, che raccogliere i cocci dei suoi intenti musicali e giocare con i suoi mille suoni, magari formulando con la nostra sensibilità audiofila un nuovo, possibile o illusorio, anagramma sonoro.
30/09/2007