Etichettare i National, e nello specifico il loro ultimo, splendido, "Boxer", come l'ennesimo disco Joy Division-oriented è abbastanza fuorviante.
Fuorviante e sbagliato. Il disco affonda le radici nella new wave più classica, con brani come "Mistaken For Strangers", che gli Interpol stessi pagherebbero per scrivere, con un eccelso lavoro sulla ritmica, o "Guest Room", stessi lidi, stessa melanconia e batteria controtempo, un gioiello per le orecchie, forse il loro brano più rappresentativo.
Sebbene, e basta leggere i credits, la stragrande maggioranza dei brani sia frutto di una composizione corale, a farla da padrona è l'incredibile voce di Matt Berninger (la butto là, il nuovo Leonard Cohen?) che aggiunge quel qualcosa che a molti altri gruppi simili manca. Si coglie lo spessore, nella composizione e nel posarsi tra le note, come nella splendida conclusiva "Gospel", ballata tutta piano e voce, con un tappeto che tira fuori ricordi di folk apocalittico, come un po' tutto l'intero lavoro. Ed è anche questa la forza di "Boxer", il sapere di non essere un disco qualunque, la sua coscienza di volere essere un po' tutto e un po' niente. Un disco finanche disincantato, con parole di ghiaccio come "Start a war", che fa gruppo con "Green Gloves" e con "Guest Room" nel cuore della tracklist, due canzoni che sembrano fuori contesto, quasi colonne sonore di un inverno che non è mai arrivato e che è rimasto segnato sul calendario. Un dato di fatto innegabile e circoscritto a tre mesi, mentre le note del gruppo scivolano via, evocando ricordi e sensazioni. Con classe, non intesa come mero esercizio di stile o in un senso di freddezza. La classe del Nick Cave che scriveva "Murder Ballads" o dei Joy Division che scrivevano "Closer".
L'arte, il gusto e lo studio del passato che emerge tra i suoi solchi consente a "Boxer" di occupare un posto d'onore tra i dischi dell'anno. Un'ultima nota e un po' una preghiera, è un disco non propriamente difficile, ma che nel suo piccolo necessita di più di un ascolto per non essere giudicato troppo omogeneo, piatto e monocorde. Se potete, fate una cosa, ascoltatelo una volta e poi riposatevi un po', tornate su "Squalor Victoria", e chiedetevi da quanti gruppi o cantautori avete sentito una canzone di questo tipo, in cui perdervi tra note scarne di un pianoforte, una batteria che sembra uscita da "Warsaw", e una chiusura così. Una chiusura che vorresti non arrivasse mai. C'è speranza nel mondo se c'è chi ha ancora coraggio di scrivere dischi del genere. O meglio: se c'è chi ancora riesce, a scrivere dischi del genere.
21/05/2007