Alla loro terza prova, i canadesi Picastro rinnovano ancora la magia dell’accostamento tra ruvidezze post-rock e delicatezza di arrangiamenti e melodie ovattate, tracciate con grazia schiva dalla suadente voce della cantante e polistrumentista Liz Hysen, da sempre fulcro dell’espressione artistica di una band intenta alla ricerca dell’equilibrio tra l’evidente eredità del post-rock orchestrale canadese e spunti di cantautorato slow-core.
La conciliazione di questi e altri elementi, già punto forte del loro ottimo esordio “Red Your Blues”, viene qui riproposta in una più ampia chiave orchestrale che vede la band allargarsi a numerosi collaboratori, tra i quali spicca il nome di Owen Pallett (Final Fantasy), che contribuisce ad alcuni dei dieci brani con pianoforte, organo e violino.
Anche grazie a una ricchezza strumentale in grado di esaltare la complessità delle sue composizioni inquiete e febbrili, “Whore Luck” dimostra la maturità di una band che, smussati con destrezza alcuni spigoli del precedente “Metal Cares”, ripone grande cura nelle ritmiche e negli arrangiamenti, dando luogo a un contesto sonoro più piano e omogeneo, per quanto intensamente sinistro e spesso scosso da spasmi elettrici e obliqui crescendo d’archi.
Sono infatti i quasi onnipresenti violino e violoncello a costituire l’elemento di coesione e temperamento armonico della musica dei Picastro, così come la sinuosa espressività del cantato della Hysen (sempre più in bilico tra Cat Power e Shannon Wright) che riempie melodie incostanti di intensità visionaria e feeling etereo. Laddove questi elementi coesistono in maniera armonica con le frammentazioni sonore di matrice post-rock, riescono a ricondurne ad unità accattivante la sottile sofferenza di dissonanze sempre latenti: è questo il caso dei pochi brani nei quali la voce della Hysen si sposa alla perfezione con melodie semplici, dalle strutture essenziali, finalmente di nuovo supportate da un songwriting lineare che nelle iniziali “Hortur” e “Car Sleep” sfiora l’incanto dell’insuperata “Winter Notes”, oppure piegate alla sorprendente cover di Roky Erickson, “If You Have Ghosts”, ove poche note d’organo e violino fanno balenare alla mente l’oscuro fascino di Kendra Smith.
Purtroppo, però, non tutto l’album è all’altezza di questi brani, poiché al di là degli interessanti inserti di pianoforte di ”Friend Of Mine” e dei ripetuti stop-and-go elettrici, appena ammorbiditi dal violino, di “Albanis”, alcuni episodi si trascinano senza essere del tutto messi a fuoco e restando ben distanti dal perpetuare l’oscuro e sbilenco incanto che lo step iniziale dell’album poteva far presagire. Ciò avviene in particolare quando la band si lascia andare a malriusciti tentativi di forma libera (“Stair Keeper”) e nei passaggi in cui l’accento è posto in maniera un po’ troppo pedante su distorsioni cameristiche che, come in “Towtruck”, palesano qualche limite di efficacia emotiva rispetto a quelle di band quali Silver Mt. Zion e Hangedup.
Ma sono proprio questi momenti più contorti a far emergere, in definitiva, la peculiare cifra stilistica della band, esaltando invece i brani in cui si compie appieno l’intreccio tra melodia e dissonanza, tra atmosfere eteree e costante inquietudine di fondo.
A partire da tali premesse ormai abituali, “Whore Luck” introduce nella musica dei Picastro una pluralità di elementi e riferimenti, esemplificati anche dalla conclusiva cover dei Fall, che vanno al di là dei consueti schemi post-rock o slow-core. Ed è questa la ragione per cui si possono perdonar loro alcune incertezze cervellotiche, conservando invece le suggestioni delle melodie agrodolci alle quali Liz Hysen dovrebbero dedicare più continua attenzione per conseguire un risultato di eccelsa personalità.
26/12/2007