Extra Life

Secular Works

2008 (Planaria)
math-rock, modern classical

Charlie Looker cammina da solo. Dopo aver contribuito a fondare i Time Of Orchids e i Lavender e dopo aver suonato addirittura nell'ensemble della Wesleyan University sotto l'egida del mostro sacro Anthony Braxton, il chitarrista newyorchese fonda nel 2006 il progetto Extra Life, prima one-man band e, dunque, quintetto con l'arrivo di Travis Laplante (tastiere, sax tenore, EWI), Caley Monahon-Ward (violino), Tony Gedrich (basso) e Nick Podgurski (batteria, percussioni).

"Secular Works" è una strana meteora: un coacervo di influenze miracolosamente calate dentro strutture spigolose, un incontro "micidiale" tra cenci di avant-prog, grumi math-rock e la musica medievale, soprattutto quella di Guillame de Machaut (1300 ca. - 1377), massimo esponente della cosiddetta "ars nova" francese. Una musica proiettata verso il futuro, nonostante su tutto il disco aleggi un'aura di mistero atemporale, nubi di oscure, sacrali, antichissime meditazioni, lontane dal frastuono delle metropoli moderne e tutte protese alla ricerca di cieli perfettamente nitidi in cui lasciarsi andare, senza limiti. Eppure, proprio in virtù dello scontro tra mondi così distanti, sboccia una musica dis-umana, appesa al filo sottile dello stupore e della meraviglia.

L'incipit di "Blackmail Blues" è, tuttavia, un assalto di percussioni travolgenti che segnano la strada per una sincopata, marziale e rocambolesca nenia dalle tinte balcanico/mediorientali, tra lo sciabordio smorzato del violino (che intreccia, severo, ascensioni e declivi) e il canto quasi muezzin di Looker che, rigoglioso, schiude imponenze pseudo-operistiche dentro cristalliere matematiche, fino agli aspri rimpalli della chiusa, che già preludono alla drammatica tensione della successiva "I Don't See It That Way".

La spigolosa consistenza "materica" degli ZS (altra compagine cui Looker ha prestato le sue doti) guadagna finalmente in consistenza formale e, quello che da Will York venne definito brutal-prog, si inoltra tra camere di specchi cameristico-amorfi, con armonie vacillanti (e in contrappunto!) e strutture ritmiche in perenne dispersione che sanno di Dirty Projectors lividi, tramortiti. Erratici e imprevedibili, gli arrangiamenti sono una continua affabulazione di intenzioni e di criptiche, medievaleggianti evocazioni in stile Gentle Giant, periodo "Octopus". La pluralità schizoide di intuizioni, le impalcature costantemente messe in subbuglio dal di dentro, con le geometriche dissociazioni degli strumenti a tramortire ulteriormente il disegno, fanno pensare ad una schizofrenia di fondo, a un attacco frontale perplesso, con quella voce che recita torridi rosari di incertezze, sillabando con raziocinio ora spiritato, ora solennemente ritualistico.

Poi, improvvisamente, si precipita tra gli esoterici meandri del folk rinascimentale di "I'll Burn", certosinamente costruito come se fosse una preghiera pagana da elevare verso un firmamento terso di fuliggine. Ecco, dunque, diluire un lamento sbilenco tra le maglie misteriose di una messa arcana memore della famosissima "Messe de Notre-Dame" di de Machaut, mentre la chitarra vaneggia ubriaca ammaliata dai Supreme Dicks e i confini tra realtà e fantasia si fanno illusori, lasciandoci volteggiare a mezz'aria, dentro un'ipnosi effimera, dentro un vuoto sibillino, acusmatico, tra disorientanti, dissociate lame di violino, a spezzare in due l'incontro tra cielo e terra, svettando tra aurore e bisbigli di stagioni in letargo, prima del devozionale incantesimo polifonico del finale, quando la voce, ampliando orizzonti, trova riparo, svanendo oltre se stessa. Inusitata.

Eroica, risorge, alfine, in "The Refrain", dinamica, frenetica scultura di chamber-pop trobadorico che prelude a "This Time", ballata minimale che estenuamente peregrina lungo il perimetro di un sogno (l'arpeggiare ammaliante e "lucente" della chitarra, i fremiti tremuli ed eterei del violino, la sezione ritmica ridotta a lucerna sorniona), prima di esplodere, repentina, innalzando gloriosi proclami ("I know what I know / But what I know won't stop me") su rotte post-rock collassate. Un rogo emozionale di proporzioni smisurate, oltre cui può esserci soltanto la terribile, vertiginosa calamità dark-ambient di "See You At The Show", (solo per qualche istante "distrutta" da una rovinosa conflagrazione rumorista) dove la voce assume i crismi deformi di un codice robotico (una voce-macchina da scrivere che declina un poema dell'assurdo?). Ma è una voce che, nonostante tutto, riesce ancora a seguire, con le sue evocazioni/invocazioni, la linea di orizzonti seppelliti da crepuscoli di ghiaccio, quasi come se la Laurie Anderson di "Big Science" si ritrovasse improvvisamente immersa dentro la mucillagine di una psiche devastata.

Originale e affascinante, "Secular Works” è un disco che disorienta, un'alienante esperienza di astrazione sonora che, tuttavia, finisce per ricongiungerci con la sconcertante voracità di una realtà in perenne mutamento. Ma è un'approssimazione che non risolve, che, pirandellianamente, "non conclude". E la chiusa Faust-iana di "Bled White", con il canto solitario di Looker, piuttosto che porre in essere un'affermazione netta e decisiva sceglie di lasciarci con un'enigmatica interrogazione: "Hit the lights/ Hit the lights/ Your life was a cruel seducer/ Am I right?".

25/09/2008

Tracklist

  1. Blackmail Blues
  2. I Don't See It That Way
  3. I'll Burn
  4. The Refrain
  5. This Time
  6. See You At The Show
  7. Bled White

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