Dirty Projectors è il moniker dietro cui si cela Dave Longstreth, ventiduenne del Connecticut con già due, intriganti seppur incompleti e irrisolti, album alle spalle. Autore dalla personalità spiccata ma sinora ancora non definita a pieno, è uno dei papabili esponenti di quella (pseudo)corrente che passa attraverso Khonnor e che cerca di aggiornare verso nuove strade il cantautorato. Il suo ambiziosissimo terzo album, "The Getty Address", inizia a mettere le cose pesantemente a fuoco.
Il disco è stato presentato come una "glitch opera": una definizione già difficile da intendere e da prendere con le molle, in quanto in realtà i due termini sono sì configurabili come parte del lavoro, ma sicuramente non sono l'unica e non vanno intesi nella loro pienezza. In pratica, "The Getty Address" segue una strada nuova e di difficile catalogazione in cui vengono a convogliare manipolazioni digitali, partiture orchestrali, fiati e percussioni (cristalli) di ogni tipo, un pressoché onnipresente coro femminile e la voce principale (non eccezionale ma adatta), dal sapore buckleyano (figlio, non padre), appartentente allo stesso Longstreth. Il tutto viene destrutturato e ricostruito con sapienza e creatività collocando il risultato finale in un territorio che della forma-canzone presenta solo qualche reminescenza.
"I Sit on the Ridge at Dusk" presenta subito tutti gli elementi: una partitura orchestrale fatta di fiati obliqui, coro femminile e percussionismo fantasioso e invasivo apre il pezzo, prima di lasciar spazio alla melodia rilassata intonata da Longstreth e cambiar forma sullo sfondo. Basta ascoltare questo brano, buono ma non il migliore, per comprendere la forma concreta dell'impasto. Si comincia a saggiarne invece la consistenza e l'ottimo sapore con "Warholian Wigs": cristalli e tamburi in primo piano, fiati (in alternanza gravi o sbarazzini) in sovrapposizione, la linea melodica del canto che è un racconto dal sapore bjorkiano, interrotto con frequenza da un ripetuto giro di chitarra classica luccicosa. "I Will Truck", invece, aggiunge maracas e battiti di mani, i fiati assumono un tono più impertinente e la chitarra conduce la linea cardine: è il brano in cui la mistura degli elementi usati raggiunge il maggior grado di naturalezza, senza per questo dover sembrare coeso.
I beat, umani e digitali, sono invece il valore aggiunto di "Not Having Found", che pure presenta al suo interno una tenera vignetta pastorale di flauto. Forse il miglior brano in assoluto è però "Tour Along the Potomac": spadroneggiano le (perfette) percussioni in formazione allargata, il sax accompagna una delicatissima melodia da viaggio, con un tema da cinema in bianco e nero a inserirsi negli spazi vuoti a metà brano.
Nel vasto campionario degli strumenti utilizzati si segnalano in ultimo i violini tesi di "Time Birthed Spilled Blood", in cui il ruolo di principale è affidato a una voce femminile. Non resta che parlare delle variazioni a tema: il breve e dolce passaggio di "But in the Headlights", il brano meno prodotto, dove la sostanza è costituita da voce e fiati, e la parentesi onirica del duo "D. Henley's Dream" e "Gilt Gold Scabs", in cui le percussioni spariscono o quasi e la veste orchestrale fa prender corpo ai fantasmi.
Disco ostico e fascinoso, "The Getty Address" può vantare una forma personalissima e si propone come uno dei lavori più "nuovi" usciti quest'anno. In più, almeno a detta di chi scrive, riesce a tradurre le ottime idee in musica di livello. Resta una pecca, ovvero qualche brano che non pare riuscire a esprimere a pieno le sue potenzialità e il fatto che, invero, lo stesso potrebbe dirsi dell'intera formula musicale proposta (il che paradossalmente è un bene in chiave futura). Trattasi comunque di rimprovero che vien fatto a un disco sicuramente non perfetto, ma di qualità: di un peccato veniale, dunque, che in tutta onestà non mi sento neanche di rinfacciare più di tanto.
14/06/2012