Le ragioni di un nuovo disco da parte dei For Against, formazione statunitense entrata ormai di diritto nella storia del post-punk, non stanno tanto nell’ovvio (e stantio) revival wave degli anni 2000, quanto piuttosto nell’ossessiva opera di riscoperta e ristampa discografica da parte della Words On Music (già produttrice di band di rilievo del nuovo slocore come Lorna, Moving Pictures e Coastal). Passate quindi le ristampe dei lavori migliori (i primi due “Echelons” e “December”, all’Ep “In The Marshes”, ristampato nel 2007), la label minnesotana, a partire dai primi anni 2000, riacciuffa a pieno titolo il trio (originale solo per un terzo, ovvero per il solo Jeffrey Runnings, canto e basso, attorniato ora dal chitarrista Steven Hinrichs e dal batterista Paul Engelhard) e offre loro un nuovo contratto.
Primo frutto del nuovo corso della band è “Coalesced” (2002), una rilettura ancor più soffusa e inconcludente del sound loro tipico.
Anni dopo, arriva “Shade Side Sunny Side”, e la questione non cambia. A salvarli dalla pena dell’anacronismo spinto c’è solo un vago incupimento delle tinte, o - meglio - una ritrovata influenza subliminale dei Joy Division. Composizioni come “Irresistible”, “Spirit Lake”, “Why Are You So Angry” e “Game Over” pagano lo scotto dei registri vocali rinunciatari e androidi di Curtis (quando non vero spleen salmodiante), delle aperture strumentali liturgiche, dei ritmi claustrofobici della sezione ritmica (ma molto spesso sottoprodotta).
Poi arrivano segni di vita: in “Game Over” si fa largo un andamento di tango da parte del piano in apertura, ad accompagnarsi con i soffi di feedback della chitarra, in “Spirit Lake” la cantilena monocorde (e talvolta tecnicamente stentante) di Runnings aspira a diventare quasi cantautoriale, e in “Irresistible”, a parte gli svarioni dilettantistici, la band arriva a mimare i sostrati ambientali dei Joy Division (l’elemento meno scontato della band di Curtis).
Qui e là si fanno strada i ritmi percussivi e concitati del revival post-punk contemporaneo à-la Organ (“Glamour”), o i toni apocalittici dei migliori Mission Of Burma (“Underestimate”), seppur frettolosamente messi da parte per darsi alla melodia più convenzionale, o ancora canzoni appena più veementi, stile Wire all’acqua di rose (“Aftertaste”), ma rimane l’impressione di incompiutezza e squilibrio.
Prova sbrigativa, se non puramente spartana (nonostante il comodo temporeggiamento di buona parte delle canzoni); più che un revival caustico, è un distinto, sovente stiloso simulacro che fa a malapena ripensare ai tempi che furono. I tentativi di movimentare l’organico (dalle chitarre elettriche all’acustica, dai synth al piano) sono attaccati con la saliva. Il suo fuoco, o il suo buon senso, proviene da una genuina necrofilia: un altro modo d’intendere il c.d. libero arbitrio.
11/04/2008