"Fordlândia" è il biglietto da visita col quale mi presenterei qualora mi mancassero cartoncini auto-referenziali in tasca. Lo porgerei a chi non mi conosce, accompagnato da un: "Molto lieto, Jóhann Jóhannsson". E sarebbe in ogni caso solo un piccolo assaggio di una personalità che da ormai quasi dieci anni, sotto plurime forme, da produttore a compositore per film/teatro, da musicista come membro dell'Apparat Organ Quartet a co-fondatore della Kitchen Motors (etichetta-think tank-calderone di arti con preferenza per la sperimentazione musicale), nuota nel panorama artistico islandese.
Come approcciare, dunque, "Fordlândia"? Sotto quale lente osservarlo?
Se al primo lavoro da solista, "Englabörn" (Touch, 2002), ci si è avvicinati con uno sguardo prima curioso e successivamente rapito dalle potenzialità espressive di Jóhannsson, proseguendo più dubbiosi e cauti tra i loop e le distensioni forzate ai limiti dell'azzeramento sonoro di "Virðulegu Forsetar" (Touch, 2004), per rimanere, in seguito, ipnotizzati dal lavoro immane di ricerca e di studio (che spazia dalla letteratura alle arti visive) presente dietro "IBM 1401, A User's Manual" (4AD, 2006), dove viene investigato il linguaggio delle macchine e la loro interazione con gli umani (e viceversa), ci si arrende completamente innanzi a "Fordlândia", soggiogati.
I compositori, si sa, parlano senza parole, plasmano immagini in musica, immagini che si innescano simili o del tutto nuove nell'ascoltatore. È come avere a disposizione una colonna sonora e farvi vibrare una storia all'interno. Sarà perché esce in pieno autunno, sarà il riferimento al dio Pan che si incontra in due tracce, ma il collegamento di questo disco con lo scorrere dei ruscelli, con le tonalità del verde e del marrone, con l'odore del muschio è nato subitaneo. "Fordlândia" è plaga boschiva, umida.
La title track rappresenta l'invito a visitare, a seguire lo svelarsi degli strumenti, della struttura. E' una musica già nata altrove che pian piano si avvicina e che ci accoglie con un "prego, siate i benvenuti".
Ecco, quindi, la prima tappa ("Melodia I") di un percorso che echeggerà gemello in buona parte delle tracce pari. Su una trama costante di motivi elettronici-ambientali, primeggeranno ottoni ("Melodia II"), pianoforte ("Melodia III"), ancora ottoni insieme ad archi ("Melodia IV"), fino a quella "Melodia (Guidelines For A Propulsion Device Based On Heim's Quantum Theory)" che appare come il compendio del miglior stile di Jóhannsson, ossia un tessuto di elettronica e orchestra che si alterna in crescendo e canali di flusso dove la tensione si accentua e si spegne progressivamente. Siamo indubbiamente al climax del disco, emotivo e strumentale.
Le tracce dispari, invece, portano con sé la storia o le storie che anche i titoli suggeriscono, il tema centrale di "Fordlândia" ("Fordlândia - Aerial View", "How We Left Fordlândia"), il riferimento a Pan e il suo epitaffio corale ("The Rocket Builder (Io Pan!)", "The Great God Pan Is Dead"), l'utopia ("Chimaerica").
Questa parallela corrispondenza tra tracce pari e dispari sembra come un intreccio di due discorsi a cui, in un primo tempo, si è tentati di associare un motivo discordante o contrastante quale potrebbe essere la luce e l'ombra, il giorno e la notte e via dicendo. Ma, giacché nulla di realmente luminoso si intravede nelle note, forse non di opposti è bene parlare, ma di osmosi. Ecco, quindi, che gli strumenti ad arco si fondono con quelli a fiato ed entrambi con le più elaborate orchestrazioni in motivi intensi e cupi, che la pioggia autunnale si mischia alle foglie nel sottobosco, che le melodie si intersecano perfettamente.
Un epigramma scolpito su una delle rocce del Bosco Sacro di Bomarzo recita: "Che ognuno vi incontri ciò che più gli sta a cuore e che tutti vi si smarriscano" ed è esattamente quello che si può suggerire all'ascoltatore che qui, nei non-luoghi di "Fordlândia", assume le sembianze del visitatore, del viaggiatore, dello straniero.
01/11/2008