Gli incredibili baffi a manubrio di Honus Honus, leader dei Man Man, ricordano forse quelli del sempre compianto Frank Zappa. L’inquinamento da nicotina e da whiskey economico nelle sue corde vocali fa magari pensare a un giovane Tom Waits. E non c’è dubbio che il gusto per l’orrido, il mordente sonoro e la schizofrenia musicale dei nostri riportino alla mente Captain Beefheart.
Facciamo quindi una premessa che fughi ogni dubbio: il trio Zappa-Waits-Beefheart è la santissima trinità dei Man Man. Essi vengono regolarmente citati in ogni articolo che li riguardi. L’accostamento è lusinghiero, certo, ma pericoloso, poiché spinge a credere che i Man Man dipingano sulla tela con i colori di qualcun altro. Cosa niente affatto lusinghiera, oltre che falsa. Perciò il giochino dei padri ispiratori si chiude con questo primo paragrafo; da ora in poi ci sarà spazio solo per la terza prodezza discografica del quintetto di Philadelphia, distribuita dalla prestigiosa Anti- (sì, la stessa di Tom Waits…).
“Rabbit Habits” suona come un carillon fatto a pezzi e rimesso insieme da una task-force mista di suonatori ambulanti d’organetto, becchini bulgari ubriachi, scimmie ammaestrate e morti viventi, se mi si concede licenza poetica.
Il pezzo di apertura dell’album, “Mister Jung Stuffed”, si apre a baratro su di un circo eccessivo, rumoroso, aberrante, dove un Honus Honus in versione imbonitore ci invita a spogliarci del buon gusto e unirci alle danze, tra melodie oblique, ritmi martellanti, euforia da decadenza dell’impero. Per tutto il corso del disco sentiremo queste grida, un po’ di gioia e un po’ di guerra, di un’umanità alla canna del gas.
Si avverte subito come l’incedere furioso del batterista Pow Pow, le percussioni, il saltellare tetro e sghimbescio sui tasti del Rhodes dello stesso Honus abbiano un ruolo centrale. E in soli due minuti e mezzo emerge la bravura funambolica dei Man Man, in grado di mantenersi in equilibrio tra delirio e controllo della forma.
Pezzi come “Top Drawer” e “The Ballad Of Butter Beans” proseguono sulla scia del gipsy-rock indemoniato e goliardico – il secondo con tanto di marimba e minacce di morte o peggio verso l’intestatario della canzone; altri, come la title track “Rabbit Habits” o la breve e bellissima “Doo Right”, fanno emergere il lato meno battagliero e testosteronico dei Man Man, e una insospettabile vena romantica. Ma che si tratti di una ballata per piano e voce o di una parata di ottoni presi a prestito dalle terre del Dixieland, con rapide incursioni di xilofono e cori marinareschi, i Man Man sono capaci di dare coerenza al caos, trasformandolo in un amichevole caos pop.
Quello di “Rabbit Habits” è un freakshow visto dal punto di vista del freak: Honus Honus e gli altri improbabili membri della band, che amano esibirsi live in shorts e col volto dipinto di bianchi ornamenti rituali, raccontano di killer dei bassifondi, narrano storiacce d’amore andate a male, minacciano malefatte di ogni genere, sempre con contagioso humour nero.
Il disco si chiude coraggiosamente con due brani da più di 7 minuti, “Poor Jackie” e “Whalebones”: foschi, dolenti, meno congestionati e carnevaleschi rispetto al mood generale del disco. Questa magnifica doppia chiusura è la luce di un’alba grigia che mette la parola fine a tutta la festa.
Il primo è un valzer mesto, con echi gotici nel violino di apertura e nello zampettare del clavicembalo, che nel finale si trasforma in una marcia funebre scandita da un bordone di tetre voci maschili, accompagnate a un coro di flappers che intonano lo slogan “there ain’t no God here, as far as I can see”.
Il secondo, vero apice del disco, è un magnifico inno all’amore imperfetto al ritmo cadenzato di un jazz funeral, intriso di swing, di roca malinconia e di vera bellezza. Fa capolino dalle paludi della Florida la strana coppia banjo/melodica. Honus lamenta: “He wears her close to the bones as though she were his own flesh”. Gli rispondono un sax vestito a lutto e un coro femminile, che incarna spesso in una sola frase il fulcro semantico del pezzo: “Who are we to love at all?”. Un arpeggio di chitarra, che contro ogni regola del rock è rimasta in secondo piano per quasi tutto il disco, dà il commiato definitivo.
“Rabbit Habits” è un disco complesso, ma non ostico: dopo un paio di ascolti ci si fa il palato, e se ne vuole ancora. Ha dentro la frenesia, l’euforia del condannato, e in generale tutto ciò che è eccessivo e sconveniente; il tutto racchiuso in una forma-canzone molto nitida. I Man Man suonano di tutto – sax, chitarra, tuba, tubi, piano, coperchi, xilofono, marimba, campanelli – e urlano come ossessi, ma sanno esattamente, al millimetro, quello che stanno facendo.
Soprattutto: i Man Man si spingono sempre fino all’orlo del baratro senza caderci dentro.
07/03/2009