Man Man

Rabbit Habits

2008 (Anti-)
alt-gypsy-rock

Gli incredibili baffi a manubrio di Honus Honus, leader dei Man Man, ricordano forse quelli del sempre compianto Frank Zappa. L’inquinamento da nicotina e da whiskey economico nelle sue corde vocali fa magari pensare a un giovane Tom Waits. E non c’è dubbio che il gusto per l’orrido, il mordente sonoro e la schizofrenia musicale dei nostri riportino alla mente Captain Beefheart.
Facciamo quindi una premessa che fughi ogni dubbio: il trio Zappa-Waits-Beefheart è la santissima trinità dei Man Man. Essi vengono regolarmente citati in ogni articolo che li riguardi. L’accostamento è lusinghiero, certo, ma pericoloso, poiché spinge a credere che i Man Man dipingano sulla tela con i colori di qualcun altro. Cosa niente affatto lusinghiera, oltre che falsa. Perciò il giochino dei padri ispiratori si chiude con questo primo paragrafo; da ora in poi ci sarà spazio solo per la terza prodezza discografica del quintetto di Philadelphia, distribuita dalla prestigiosa Anti- (sì, la stessa di Tom Waits…).

“Rabbit Habits” suona come un carillon fatto a pezzi e rimesso insieme da una task-force mista di suonatori ambulanti d’organetto, becchini bulgari ubriachi, scimmie ammaestrate e morti viventi, se mi si concede licenza poetica.
Il pezzo di apertura dell’album, “Mister Jung Stuffed”, si apre a baratro su di un circo eccessivo, rumoroso, aberrante, dove un Honus Honus in versione imbonitore ci invita a spogliarci del buon gusto e unirci alle danze, tra melodie oblique, ritmi martellanti, euforia da decadenza dell’impero. Per tutto il corso del disco sentiremo queste grida, un po’ di gioia e un po’ di guerra, di un’umanità alla canna del gas.
Si avverte subito come l’incedere furioso del batterista Pow Pow, le percussioni, il saltellare tetro e sghimbescio sui tasti del Rhodes dello stesso Honus abbiano un ruolo centrale. E in soli due minuti e mezzo emerge la bravura funambolica dei Man Man, in grado di mantenersi in equilibrio tra delirio e controllo della forma.

Pezzi come “Top Drawer” e “The Ballad Of Butter Beans” proseguono sulla scia del gipsy-rock indemoniato e goliardico – il secondo con tanto di marimba e minacce di morte o peggio verso l’intestatario della canzone; altri, come la title track “Rabbit Habits” o la breve e bellissima “Doo Right”, fanno emergere il lato meno battagliero e testosteronico dei Man Man, e una insospettabile vena romantica. Ma che si tratti di una ballata per piano e voce o di una parata di ottoni presi a prestito dalle terre del Dixieland, con rapide incursioni di xilofono e cori marinareschi, i Man Man sono capaci di dare coerenza al caos, trasformandolo in un amichevole caos pop.
Quello di “Rabbit Habits” è un freakshow visto dal punto di vista del freak: Honus Honus e gli altri improbabili membri della band, che amano esibirsi live in shorts e col volto dipinto di bianchi ornamenti rituali, raccontano di killer dei bassifondi, narrano storiacce d’amore andate a male, minacciano malefatte di ogni genere, sempre con contagioso humour nero.

Il disco si chiude coraggiosamente con due brani da più di 7 minuti, “Poor Jackie” e “Whalebones”: foschi, dolenti, meno congestionati e carnevaleschi rispetto al mood generale del disco. Questa magnifica doppia chiusura è la luce di un’alba grigia che mette la parola fine a tutta la festa.
Il primo è un valzer mesto, con echi gotici nel violino di apertura e nello zampettare del clavicembalo, che nel finale si trasforma in una marcia funebre scandita da un bordone di tetre voci maschili, accompagnate a un coro di flappers che intonano lo slogan “there ain’t no God here, as far as I can see”.
Il secondo, vero apice del disco, è un magnifico inno all’amore imperfetto al ritmo cadenzato di un jazz funeral, intriso di swing, di roca malinconia e di vera bellezza. Fa capolino dalle paludi della Florida la strana coppia banjo/melodica. Honus lamenta: “He wears her close to the bones as though she were his own flesh”. Gli rispondono un sax vestito a lutto e un coro femminile, che incarna spesso in una sola frase il fulcro semantico del pezzo: “Who are we to love at all?”. Un arpeggio di chitarra, che contro ogni regola del rock è rimasta in secondo piano per quasi tutto il disco, dà il commiato definitivo.

“Rabbit Habits” è un disco complesso, ma non ostico: dopo un paio di ascolti ci si fa il palato, e se ne vuole ancora. Ha dentro la frenesia, l’euforia del condannato, e in generale tutto ciò che è eccessivo e sconveniente; il tutto racchiuso in una forma-canzone molto nitida. I Man Man suonano di tutto – sax, chitarra, tuba, tubi, piano, coperchi, xilofono, marimba, campanelli – e urlano come ossessi, ma sanno esattamente, al millimetro, quello che stanno facendo.
Soprattutto: i Man Man si spingono sempre fino all’orlo del baratro senza caderci dentro.

07/03/2009

Tracklist

1. Mister Jung Stuffed
2. Hurly/Burly
3. The Ballad Of Butter Beans
4. Big Trouble
5. Mysteries of the Universe Unraveled
6. Doo Right
7. Easy Eats Or Dirty Doctor Galapagos
8. Harpoon Fever (Queequeg’s Playhouse)
9. El Azteca
10. Rabbit Habits
11. Top Drawer
12. Poor Jackie
13. Whalebones

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