Torna il gruppo di Jönköping, piccola cittadina svedese, dove i fratelli Ekström hanno segretamente coltivato la passione per le sonorità wave, giocando forse a vestirsi di nero, scompigliarsi i capelli... A fare i piccoli Cure, insomma. Non che questo li ponga a grande distanza da tante altre band: senza andare troppo distante, gli Shout Out Louds di pane e new wave ci vivono tuttora. I Mary Onettes possiedono però qualcosa di estremamente peculiare: una fedeltà quasi parossistica agli stilemi di quegli anni. Certo, c'è chi preferisce il revival duro e puro al mascheramento un po' furbetto che, dal loro punto di vista, caratterizza molta della scena di questi anni. In perfetto spirito nordico, la musica dei Nostri pare sia il risultato di un bizzarro esperimento di ibernazione e scongelamento: di abbellimenti moderni la band svedese sente di poter fare tranquillamente a meno.
Si sarà già capito che, dall'esordio omonimo di due anni fa, i Mary Onettes non si sono mossi di un dito. Stanno lì, fermi, forti di un sound che nessun altro, o quasi, ha il coraggio di riesumare in maniera altrettanto palese (a partire dagli artwork che contraddistinguono i loro lavori, reminiscenti delle escursioni glaciali degli Echo & The Bunnymen). Dopo tutti i (comunque doverosi) caveat del caso, va gettata la maschera: gli svedesi, al loro gioco, sanno giocare. L'accoppiata iniziale, costituita dalla cavalcata synth-pop di "Puzzles" e dall'elegante romanticismo di "Dare", ruba un po' di posto nella memoria ai grandi classici che sicuramente campeggiano in bella vista sugli scaffali della famiglia Ekström. Non contenti, proseguono con ballatone vagamente epiche, introdotte e sorrette dagli archi, nervosi, di "Ocean Rain" ("Once I Was Pretty", "Symmetry"): i Mary Onettes non hanno certo bisogno di ripasso, per quanto riguarda il panorama pop eighties.
La filigrana del disco, e della musica, dei Nostri è costituita però da una mistura dell'enfasi volteggiante di un Robert Smith (dopo l'abbandono almeno parziale dell'estetica post-punk e più dark), a cui il cantato è decisamente ispirato, e del romanticismo dei Church: una miscela che fa bella mostra di sé in particolare nel pezzo dal tiro radiofonico "God Knows I Had Plans".
I Mary Onettes sembrano insomma una di quelle band che hanno trovato un angolino riparato dalle intemperie, che ci sanno fare nel loro campo, magari limitato, ma come nessun altro, veri custodi di un canone inciso nella pietra. Tranquilli tranquilli, "sulle spalle dei giganti". Forti di questa sicurezza continuano, imperterriti, a insistere col succitato canone: un po' come i Kings Of Convenience, non a caso scandinavi a loro volta, che hanno costruito sull'educata riproposizione delle armonizzazioni e del compassato folk-pop à-la Simon And Garfunkel la loro fortunata carriera. Una fortuna che senz'altro si può augurare anche ai Nostri, per la perseveranza e un certo coraggio nel voler proseguire su un tracciato ormai abbondantemente percorso dai più disparati convogli, tanto da essere praticamente irriconoscibile.
01/11/2009