Jacopo Incani è l'emblema più eloquente, perlomeno oggi, perlomeno in Italia, di dove può portare il big bang permanente della turbomodernità, della logica punk del do it yourself che gira vorticosamente su se stessa e risucchia i linguaggi e le maniere più svariate di costruire significati. Ognuno basta a se stesso, purché sappia maneggiare come si deve qualche diavoleria tecnologica, ognuno può rinchiudersi in una stanza e frullare in un'unica banderuola ammaccata tutto ciò che gli passa per la testa. E ognuno può comunicarlo al mondo in un baleno, il frutto di questo suo estraniamento, questo suo affannarsi nella ricerca dell’incastro e della saturazione, questa febbre da alchimista, da scienziato pazzo che ancora non sa nemmeno se sopravvivrà o meno ai miasmi prodotti dalle sue avveniristiche invenzioni.
A Incani non serve altro che i suoi aggeggi: un campionatore, una loop-machine, un computer, una qualsiasi, banale chitarra. A un certo punto della sua giovane vita di sardo espatriato nella brulicante e collosa Bologna s'è messo addosso una maschera e un nome da cantautore surreale, ha abbassato la testa e nel giro di qualche mese ha tirato fuori uno dei dischi più interessanti usciti in Italia nel 2010. Glielo ha pubblicato la Trovarobato, e il fatto che i ragazzi dell'etichetta li conoscesse già da un po' è stato segno di un destino benevolo, perché molta della roba migliore che ci capita di ascoltare di questi tempi passa proprio attraverso le loro mani.
Come un poeta senza grazia, come un Brondi senza noia, Iosonouncane ha preso a girare per l'Italia per tutto l'inverno, e ormai sono in pochi quelli che ammettono di saper resistere ai suoi funambolismi. Lui sulla famigerata leva cantautorale degli anni Zero ci sputa su, o comunque non riesce proprio a riconoscerne stilemi e sembianze, e come sempre per chi se la prende con le gabbie e la smania di etichettare voci e creatività, specie quando in queste gabbie qualcuno vorrebbe provare a rinchiuderlo, non può non avere più di una parte di ragione.
"La macarena su Roma", però, per i motivi già addotti sicuramente appartiene appieno a questa stagione o perlomeno ne è espressione esemplare. In altre parole, non sarà parente dei dischi di Dente, o del solito Brondi, ma poteva originarsi solo alle condizioni in cui ci ritroviamo in questo primo scorcio di millennio.
Per questo motivo, intuitivamente, sotto un certo punto di vista quello di Incani è un disco facile. Far le cose da soli, senza nessuno a cui rendere conto o a cui chiedere niente, è più facile. Ciò non toglie che questo esercizio di solipsismo portato all'ennesima potenza meriti tutta l'attenzione che s'è conquistato: è naturale che in questi casi bisogna essere bravi ancora di più, per la ragione esattamente opposta a quella di prima. Onori e oneri della libera professione, no?
Venendo alle canzoni, che poi è ciò di cui dovremmo stare a parlare, è chiaro che il punto di forza di quest'album è la capacità di cambiare registro continuamente. Per molte delle tracce, a dire il vero, non è opportuno nemmeno usarlo, il termine "canzone", perché spesso Incani mescola talmente le regole del gioco che si tratterebbe solo di cieca ostinazione. Gli echi sono parecchi, e al di là di quelli confessati o troppo prossimi (dagli Animal Collective ai Mariposa), può valere la pena di evocare il Beck più sperimentale e, per rimanere in tema di italiani di talento (in questo caso, purtroppo, momentaneamente smarrito), Alberto Muffato, alias Artemoltobuffa. E poi, certo, c'è la forza prorompente dei testi, delle sue storie di malattia sociale raccontante con tratto onirico o iperrealista, con ironia e con una clamorosa faccia di bronzo.
Come potremmo prenderti sul serio, Incani, con un nome così, con una moltitudine così di suoni e pensieri? E invece possiamo eccome: non è il caso di lasciarsi andare al tripudio, ma qua c'è sostanza e questo è solo l'inizio.
13/06/2011