Mountain Man

"Fleet Foxes al femminile", "Joanna Newsom senza orpelli", chi più ne ha più ne metta nel calderone dell'hype che ha accompagnato l'esordio di questo trio di ragazze del Vermont. Dei giganti del folk alternativo ci sono gli ingredienti più evidenti, le insistenti armonizzazioni e un deciso passatismo, tanto che pare di assistere agli imbronciati lamenti di donne rese sciatte e inconsolabili dalla Guerra Civile: cartoline dense di un certo puritanesimo emotivo, spedite direttamente dalle fronde degli abeti degli Appalachi.

Le tre ragazze si presentano beneducate e soavemente intrecciate (non così entusiasmanti, come parrebbe da certe dichiarazioni, la loro intesa e le loro capacità canore), con l'ordinato vestito bucolico e il diploma in Letteratura e Visual Art ancora da conseguire. Il loro "Made The Harbor" sembra effettivamente il risultato di oziosi pomeriggi di break estivi, passati a cullarsi dolcemente nel giardino dietro casa, abbozzando qualche nota in coro. Sparuti arpeggi formano lo scheletro lo-fi del paesaggio di innocente spoliazione, su cui si innesta il velato abito delle tre voci di Molly, Alexandra e Amelia.
Motivi impalpabili, fugaci - la stragrande maggioranza dei pezzi è ben al di sotto dei canonici tre minuti - che scorrono garantendo il minimo sindacale di ritualità corale e suggestioni boschive ("Animal Tracks", "Sewee Sewee"), fino a rasentare l'irritazione nei giochi d'interpretazione più sfacciati (come nell'"a cappella" di "How'm I Doin'").

Non è un mistero a questo punto che, in "Made The Harbor", più che desola(n)ti abbozzi di canzone si fatichi a trovare: il movimento del folk al femminile degli ultimi tempi ha saputo offrire contributi di ben altro spessore, soprattutto in questo senso (si veda Alela Diane, ad esempio). Per quanto riguarda le Mountain Man, sembra solo un errore assecondare il gioco casuale di qualche riunione universitaria.

10/06/2010