Diciamoci la verità: se sostieni (petto in fuori e pistole in pugno) che la tua band è senza ombra di dubbio la più grande del pianeta, qualcuno finirà prima o poi col crederci sul serio. Questo è il vero guaio. Smaltita la sbornia freakbeat del precedente "The West Ryder Pauper Lunatic Asylum", i Kasabian non retrocedono di un centimetro rispetto allo smisurato gigantismo che da sempre ne anima le imprese, innalzando un nuovo kolossal ologrammatico (tutto raggi laser, fiammate virtuali e seggiolini girevoli) a quell'ipotesi di grandezza cosmica che Sergio Pizzorno e compagnia hanno da tempo trasformato in un credo mistico che non ammette replica. Viene forse meno il formalismo decadente e ampolloso che aveva definito lo spirito del lavoro del 2009 (impregnato di acida retorica swingin' e rimandi cifrati all'iconografia di Pretty Things, Move, Creation, Beatles revolveriani e primi Pink Floyd) ma la festa mobile del quartetto di Leicester (sempre coadiuvato dal fidatissimo illusionista nipponico Dan The Automator) continua ad attrezzare un'eclettica forma di titanismo profetico che non bada a spese pur di stupire.
L'iniziale (e apprezzabile) "Let's Roll Just Like We Used To" si lascia spettinare da venti cinematografici - che torneranno poi a soffiare sulle sabbie bizantine di "Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm)" - con squilli vorticosi di trombe in scia al John Barry più spionistico, mentre la successiva "Days Are Forgotten" (da notare il tessuto percussivo sfilacciato alla Primal Scream) ricalca i dettami di quell'ibridismo dance-rock mutante che è alla base della poetica pizzorniana sin dai suoi esordi, in bilico tra l'estasi sampledelica di un Dj Shadow in alamaro sbreccato e un cipiglio pagliaccesco degno degli Slade.
Il problema è semmai rappresentato dalla mancanza (forse voluta) di uno stabile baricentro concettuale e da una regia ondivaga e allucinata, che dispensa cambi di ambientazione con mano troppo rapace: dallo psycho-soul (colorato da incaute pennellate western) della mediocre "La Fée Verte" si passa infatti agli stordimenti acid house della puntiforme "I Heard Voices", per poi accartocciarsi sulla cassa truzza di "Switchblade Smiles", oziosa esercitazione sul vecchio registro di "Club Foot". Canzone nella quale i nostri dimostrano, se non altro, di aver spiato dal buco della serratura, blocco degli appunti alla mano, l'iniziatica primavera dei sensi della migliore Madchester che fu, attraverso un profluvio di lampi drum 'n' bass e sincopi ritmiche che si ritrovano poco più in là a smuovere la fragile chiglia dell'eponima "Velociraptor!".
La fattanza vocale del frontman Tom Meigham (che si iscrive a pieno diritto nella linea araldica dei vari Ian Brown e Shaun Ryder del caso, si ascolti "Goodbye Kiss") appare, a tratti, meno frizzante e luciferina del solito e "Neon Noon" srotola i titoli di coda su un film più simile in realtà a una collezione sbavata di trailer per magniloquenti pellicole hollywoodiane mai realizzate...
La band britannica, pur legittimando il proprio primato nell'indice di gradimento popolare (prova ne siano il pressoché istantaneo numero uno nella hit parade albionica e i sempre affollatissimi concerti in giro per il mondo) continua a rimanere avvolta, e in parte nascosta, dietro una coltre fumogena di ambizioni tracotanti e retorica (auto)imperialistica, oltre la quale si fatica però a intuire una reale e misurabile consistenza. Fu vera gloria?
01/10/2011