Negli ultimi due anni, gli Shabazz Palaces erano stati il segreto meglio conservato del sottosuolo hip-hop statunitense, l'oggetto misterioso più prezioso, il giacimento in grado d'irrorare un'intera scena con la sua ricchezza. Niente nomi, due Ep riconoscibili solo dai caratteri arabici sulle copertine, niente video, niente interviste, buio totale. Poi, a poco a poco, la verità è venuta a galla, senza peraltro nulla togliere all'originalità e all'intelligenza della proposta, confermando semmai il sospetto che dietro tanta retrospettiva maestria non poteva esserci un semplice esordiente. Non lo è, difatti, Palaceer Lazaro aka Ishmael "Butterfly" Butler, già storico mc dei Digable Planets nella prima metà degli anni 90. A quell'epoca il terzetto newyorkese, titolare di un jazz-hop mistico-afrocentrico figlio dei precetti della Native Tongue, aveva all'attivo un esordio di grande successo, trainato dal singolo "Reachin' (A New Refutation Of Time And Space)", e addirittura un Grammy Award come miglior perfomance di un gruppo rap.
Una linea della fortuna che non era difficile individuare sul palmo di "Black Up", esordio sulla lunghezza di Shabazz Palaces, gruppo formato per l'appunto dal redivivo Lazaro/Butler e dal suo braccio destro, il percussionista Tendai Maraire. Un album che combina, con abilità da supremo prestigiatore, il retaggio di quell'hip-hop cosmopolita, jazzato su frequenze downtempo, aspirato in psichedelie da droghe leggere, sbocciato nell'humus post-daisy age, e strutture irregolari, cut-up post-moderni di scuola anticoniana - con particolare riferimento a Odd Nosdam - mantenendosi in miracoloso equilibrio fra onirica pulsazione groovy, refrain slittati di contesto e astrazione avant, tra il flusso di coscienza e la proporzione scandita del beat. Anche le liriche di Palaceer Lazaro rifuggono ogni concretezza semantica e descrittiva, animando piuttosto cantilene propiziatorie in rima, mantra ipnotici, parole chiave il cui suono promuove nell'ascoltatore inedite associazioni inconsce, inscrivendolo in una prospettiva trascendentale che spinge a rivelare il proprio vero sé, a conoscersi intimamente e individualmente e ad agire di conseguenza. Il messaggio è che non esiste più un messaggio. Sta a ognuno ascoltarsi e scoprirlo. La musica e le parole non possono spiegarti quello che "devi" sapere o sentire.
L'influenza dei Clouddead si avverte chiaramente in brani come l'opener "Free Press And Curl", con le voci echeggianti e raddoppiate, le sfasature di synth e la ritmica risucchiata dai bassi, nei riverberi spettrali, robotici e subacquei di "An Echo From The Host That Profess Infinitum", nello splendido decollage di "Youlogy", spirale di sospensioni, fratture ritmiche, fuzz elettronici e improvvisi inserti jazzati, nella febbrile e incalzante "The King's New Clothes Were Made By His Own Hands". E se "Recollection Of The Wraith" galleggia fra la distesa metrica da rap della vecchia scuola e l'oscuro scandaglio ipnotico dei rintocchi di basso, le vestigia funk orchestrali e i refoli cinematici vengono affettati dai break-beat nei tagli concisi di "Are You...Can You...Were You (Felt)", mentre l'afrore esotico del cantato soul (ospiti vocali: le THEESatisfaction) illumina, rispettivamente, il downtempo sfalsato e disturbato di "Endeavors For Never (The Last Time We Spoke You Said You Were Not Here)" e i pattern di synth stilizzati di "Swerve...The Reeping Of All That Is Wothwhile (Noir Not Withstanding)".
Un incantevole poema sonoro le cui armoniose corrispondenze si svelano ascolto dopo ascolto, con studiata lentezza, annullando ogni freddezza intellettuale col calore umano della sua straordinaria forza suggestiva e comunicativa. Rilanciando e ridefinendo il ruolo dell'hip-hop sperimentale nel nuovo decennio e regalandoci un'esperienza in grado di stupefare la nostra percezione della quotidianità (non solo) musicale.
16/07/2011