Stefania Pedretti, in arte Alos, viene da un mini in collaborazione con Kawabata Makoto e un singolo in collaborazione con Xabier Iriondo, con cui rompe gli indugi e si accosta alla musica d'avanguardia. È il trampolino che la proietta in "Era", il suo apice artistico. Il suo demonico idioma inventato diventa ora anagramma di una perdizione, una lingua pre-verbale di tragicità ineluttabile. Le professioni dissertate dai precedenti lavori, cuoca ("Ricordi indelebili") e sarta ("Ricamatrici"), qui regrediscono al ceppo originale, quello della preistoria, o meglio dell'anti-storia, tanto sembra essenziale e perfino scheletrico il suo parossismo concettuale.
Pedretti organizza questa ingigantita ambizione con una pagina che ha della sinfonia, della cantata pagana, ma anche del "Pierrot Lunaire" di Arnold Schoemberg. Il suono è scarno, talvolta affidato ai puri tremolii del violino e del violoncello, che in accoppiata con la voce suonano come se i rituali di Nico fossero stati portati al termine del viaggio che preconizzavano. L'elettronica di Mattia Coletti, alla produzione, si limita a esaltare le sacre stonature e stecche che si aprono vere oasi nei brani, anche se spesso sembrano dettate dalla casualità più infantile.
"Panas", quindici minuti, si apre con un'invocazione virginale, che suona più come una filastrocca. La componente sciamanica proviene semmai dai tuoni della chitarra, con il cello che si sdoppia sia in contrappunto neoclassico che in spettrali corse cosmiche. A metà brano, la chitarra è ormai diventata un timpano che scandisce una marcia funebre, mentre la voce inscena un recital repellente e sconfinato, che incita e rallenta o accelera il rituale: gorgheggi, vocalizzi, vibrati che attingono a sorgenti nobili quali la stregoneria, i riti voodoo, gli spasmi degli epilettici, degli psicopatici, degli indemoniati. Al climax, la chitarra si dissolve in ectoplasma ambientale, mentre ritorna il cello sconsolato, in un'area dissonante ancor meno musicale.
Lo "scherzo" del caso è rappresentato da "Cammineremo sui nostri corpi". È anche più magico nel suo alternare una delle migliori nursery-rhyme espressioniste di Pedretti con deflagrazioni che la ribaltano per mostrarne il lato grottesco, brutale, quasi caricaturale.
I tredici minuti della title track della seconda facciata sono generati da sonagli e campanacci che nascondono astratti, inudibili richiami della foresta, mentre ogni tanto la Maria Callas dell'assurdo "intona" qualche breve dichiarazione. Dopo quattro minuti gli archi si annunciano con un ronzio dissonante; segue un vasto adagio da camera, tanto arcano quanto maestoso, frantumato dalle percussioni metalliche perpetue come sciami, il cui fusto - privo dell'armonia tradizionale - è intrecciato dalle invettive free-form della cantante, pregna di disperazione. Un tremolio minimalista, reminiscente dell'harmonium di Nico, sembra prevalere, quindi il cello accenna un tema quasi melodico prima di spegnersi sui cristalli impassibili.
Sono brani - in ultima analisi una sorta di trascrizione musicale dell'incubo d'una belva primordiale - che nascondono (e non la deflagrano) la tensione più lacerante. Pedretti ha messo in musica due suite che sono tableaux vivants di freddo iperrealismo, mosse da pochi eventi, come fosse un moto perpetuo modulato, o un coma indotto, ma innervate di catatonica drammaturgia. La distanza con i brevi schizzi di no wave amatoriale delle prime Allun, ma anche con le peregrinazioni doom degli OvO, non potrebbe essere più ampia. Violoncello della brava e non meglio identificata J.K. Disponibile solo in vinile rosso a tiratura limitata.
02/03/2012