La verità è che di figure come Anaïs Mitchell, al giorno d'oggi, ce ne dovrebbero essere di più. Non che l'individualismo/boniverismo di questi ultimi anni non abbia dato adito a interessanti e personalissime prospettive in quello sconfinato universo a nome "cantautorato", tuttavia è un dato di fatto che attualmente le figure capaci (oppure solo volenterose) di guardare oltre il giardinetto della propria anima si contano sulle dita di una mano, forse due.
Certo, è inutile, forse pure ingenuo, rimpiangere i tempi in cui il songwriter assumeva un ruolo di protesta, facendosi portavoce del malcontento comune, resta comunque il piacere di constatare che ancora c'è chi avverte l'esigenza di uscire dal proprio guscio, e osservare quanto gli si para attorno. E perché no, magari rimanerne delusi, rammaricati, perfino stravolti.
A dire il vero, la cantautrice del Vermont non è di certo nuova nell'utilizzare la sua traboccante espressività in una chiave che sappia essere anche politica, da intendersi pure nel senso aristotelico del termine. La splendida folk-opera "Hadestown" era riuscita due anni fa, nella sua complicata fisionomia, a trasfigurare il mito orfico e a trasportarlo tra le bettole di New Orleans e i monti della sua terra natale, in un senso di apocalisse incombente che alludeva all'attuale, sventurato, tracollo delle certezze della civiltà occidentale.
Adesso, nell'anno della fine del mondo, esce "Young Man In America", album che presenta una Mitchell sorprendentemente dimessa rispetto al recente passato, ma non per questo meno ambiziosa sotto il profilo narrativo. Il musical è finito, gli orchestranti hanno riposto gli strumenti nelle loro custodie, e la cittadella infernale è sprofondata di nuovo negli abissi della Terra. Di questa grandiosa rappresentazione rimane vividissimo però il ricordo, una traccia soffocata, ma indelebile, che ha finito per ripercuotersi inevitabilmente nella realizzazione dell'ultimo lavoro.
Senza poderose allegorie a trasporre il contenuto tematico delle canzoni in una dimensione di aulico (quanto intenso) distacco, la quinta fatica della Nostra racconta delle difficoltà di un giovane ragazzo statunitense a trovare la sua strada nell'America durante l'epoca della crisi, di una vita fatta di miseria, stenti e inesorabile sconforto.
Un paese alla deriva, che ha smarrito la strada maestra da tempo immemore, e non sembra nemmeno desiderare ritrovarla: il protagonista di questa narrazione in undici atti non esita a scagliare pesanti accuse all'indirizzo della sua madrepatria ("Wandrin' in the wilderland, look upon your children, wandrin' in the woods", canta nel brano d'esordio), che continua, indefessa, a rimanere indifferente ai lamenti della sua prole.
Oberato dal peso della sua difficile condizione, il nostro eroe sogna di una nazione più genuina, umana: in un certo senso, attraverso le sue parole, rivive il mito di un'America edenica, remota nel tempo e nello spazio, della quale fantasticare ad occhi aperti. Il senso quindi di un così accentuato classicismo, sul solco della grande canzone folk americana, è presto detto. I soggetti delle canzoni (titoli come "Tailor" e "Shepherd", ispirata ad un racconto scritto trent'anni fa da suo padre, non sono affatto casuali) fotografano istantanee di personaggi popolari a cui è stata data nuova vita, un'altra possibilità di illustrare la propria storia, e valori sepolti sotto cumuli di noncuranza.
Il folk della tradizione quindi, quel folk che ha immortalato secoli di storia statunitense, diventa veicolo prediletto a cui l'autrice affida pensieri e confessioni, condendoli di una vocalità vibrante e incisiva, che nasconde nei suoi echi fanciulleschi alla Joanna Newsom un'inusitata severità. Severi e ponderati si fanno pure gli arrangiamenti: il pizzicare compassato della chitarra, talvolta sostituito dal pianoforte (nel soffocato avanzare di "Coming Down"), fumosi tappeti d'archi, e per finire un'indistinta coralità si limitano ad accompagnare e ad indirizzare il taglio deciso della scrittura, qui più evidente che mai.
È a questo livello che si rivela però una certa stanchezza: un'innata classe interpretativa (ben evidente nei primi due brani, complessivamente i migliori del lotto), e i limpidi fregi musicali non riescono a celare, talvolta, la mancanza di melodie all'altezza, di canzoni che oltre all'appassionante urgenza testuale si avvalgano anche di una cornice lirica di pari intensità. L'easy listening vagamente elettrico in "Venus", vera e propria mosca bianca del disco, il mantra sonnacchioso della conclusiva "Ships", unica circostanza in cui sembra far capolino una remota possibilità di speranza, come pure il posato stornello country "You Are Forgiven", testimoniano una cantautrice dall'incontestabile temperamento, alle prese con un'eredità di cui stavolta non sa come disporre al meglio.
È necessario dare credito, ad ogni modo, all'autrice di porsi continuamente in discussione, di essere uno dei massimi (e più ambiziosi) talenti al femminile degli ultimi anni, un talento che riesce, per quanto appannato, ad inviare barlumi di lucentezza. Resta da sperare che le future pubblicazioni ci riconsegnino una Anaïs Mitchell provetta compositrice, oltre che superba narratrice, magari nuovamente padrona del formidabile lascito del folklore statunitense.
29/04/2012