Qualcuno è andato per formarsi,
chi per seguire la ragione,
chi perchè stanco di giocare,
bere il vino, sputtanarsi...
...ed è una morte un po' peggiore.
E così, anche il Maestrone molla. Molla perché è stanco, molla perché in musica non ha più molto da dire. Lo sapeva forse da anni, senz'altro dava a vederlo, ma ora che il momento è giunto il dispiacere è forte per chi l'ha seguito almeno in un tratto del suo quasi cinquantennale percorso.
Non lascia in gloria. "L'ultima Thule" è, come ora il suo autore, un album stanco, pigro, nostalgico. Ma capace comunque di qualche guizzo, in cui a testa alta torna il Francesco Guccini tessitore di leggende delle Locomotive e dei Don Chisciotte, delle battaglie del popolo e dei sognatori solitari.
Concepite e registrate nel comfort sonnacchioso di Pavana, il cui vecchio mulino è stato riadattato a studio di registrazione proprio per l'occasione, le otto tracce che compongono questo disco di addio sono un bignami di temi tipicamente gucciniani: c'è la quarta (peraltro evitabilissima) "Canzone di notte", c'è la tirata anti-ipocrisia colorata di utopia ("Testamento di un pagliaccio"), ci sono i ricordi d'infanzia e le epifanie di una vita in "L'ultima volta", c'è l'"odore di dopoguerra" di "Quel giorno di aprile".
E ci sono, ovviamente, i compagni di sempre: Vince Tempera, Ellade Bandini, rispettivamente a tastiere e batteria; poi "Flaco" Biondini, l'argentino, alle chitarre, e l'inconfondibile sax di Antonio Marangolo. Manca solo il basso di Ares Tavolazzi, sostituito qui dal sessionman Pieluigi Mingotti. Che non è comunque l'unico nuovo collaboratore, perché, fatto atipico, troviamo in "L'ultima Thule" tutto uno stuolo di fiati e archi ad arricchire - in maniera molto equilibrata, va detto - gli arrangiamenti.
Aggiunta molto efficace in questo senso è la ghironda, antico strumento a corda che dà ai due pezzi migliori del disco, "Su in collina" e "L'ultima Thule", il giusto tono epico. La prima, trasposizione di una storia dialettale partigiana, mescola il freddo dell'inverno e la desolazione della collina emiliana a una morte in guerra che gela il cuore. Senza irritanti accenti eroici, con tono dimesso, Guccini riporta in luce la tragedia di un periodo troppo spesso svuotato del suo lato umano.
La seconda, un po' "Bisanzio" e un po' "L'isola non trovata", ritorna invece sull'archetipo super-gucciniano della terra leggendaria e irraggiungibile, con tutto il caravanserraglio di simboli che il cantautore ci ha associato nei tanti anni di frequentazione. Figlia di una gestazione lunga quasi quanto la sua carriera - era dai tempi di "Radici" che Guccini pensava a "L'ultima Thule" come titolo per il suo album conclusivo, la canzone sfrutta il mito medioevale dell'isola di ghiaccio e fuoco perduta all'estremo nord dei mari per intrecciare un'ultima volta vecchiaia, sogno e memoria fino a che non sia più possibile distinguerle fra loro. Senz'altro la traccia più incisiva del disco, è anche uno degli episodi musicalmente più entusiasmanti dell'intero canzoniere gucciniano: una cavalcata prog-folk in cui tastiere, fiati, percussioni, ghironda si rincorrono e fanno da contrappunto alla voce con energici motivi celtici.
I gucciani doc non disdegneranno forse nemmeno le altre tracce, tanto quelle riuscite a metà quanto quelle manifestamente interlocutorie. Ma anche chi, come me, un poco storce il naso, non potrà che concordare: il volontario addio di Guccini alla canzone ispira un profondo rispetto. La sua è una scelta onorevole. Avrebbe potuto andare ancora avanti, come tanti, centellinando dischi sempre più lontani e opachi. Diluire il poco rimasto da cantare, fingere che l'entusiasmo sia sempre quello di un tempo. Sarebbe stata, senza alcun dubbio, una morte un po' peggiore.
06/01/2013