È un lungo rapporto d'amicizia, quello che lega Hush Arbors (moniker dietro cui si cela il cantautore Keith Wood) agli Arbouretum, formazione di Baltimora sempre più in vista nell'asfittico panorama rock statunitense: un'amicizia oramai di lungo corso, spesa fianco a fianco sui palchi di mezzo mondo a incrociare due differenti, ma non troppo dissimili, visioni artistiche in una combinazione che soltanto adesso è possibile apprezzare anche nell'intimo delle proprie abitazioni. In occasione dello scorso Record Store Day è uscito infatti "Aureola", split nel quale vengono convogliate le sensibilità musicali dei due progetti che mettono in mostra le reciproche affinità e divergenze.
Pur condividendo il medesimo background (il folk-rock a stelle e strisce anni 70 è un punto di riferimento chiaro e tangibile) è diversa l'impostazione con la quale uno e gli altri ne rileggono suoni e contenuti. I primi cinque brani, firmati da Wood, si approcciano alla materia con un'impronta decisamente classica, tenendo a debita distanza esotismi e stranezze varie, deposte a favore di un picking morbido e gentile sul quale scivolano leggere le melodie. Prevalentemente supportate dalla sola chitarra acustica (per quanto l'accattivante "Prayer Of Forgetfulness" sia ricolma di elettricità), le canzoni pennellano un viaggio nell'America più profonda, un resoconto di falò al chiaro di luna e strade polverose, percorse come l'ultimo degli avventurieri con in pugno solo qualche dollaro e una sei corde cui lasciare riflessioni e inquietudini, mentre attorno tutto langue.
Sulla stessa falsariga si snoda la proposta degli Arbouretum, che in perfetta coerenza rispetto a quanto già espresso nell'ultimo "The Gathering" si contrappongono alla delicatezza del loro sodale con tre lunghe galoppate psichedeliche, fughe epiche da cui l'ombra di Neil Young sgattaiola in continuazione, danzando in preda agli acidi. Chitarre sature e pesantissime, poderosi intermezzi strumentali, e per finire la voce stentorea di David Heumann inquadrano uno stile giunto a piena percezione delle proprie potenzialità, un denso crocevia in cui il folk della tradizione, radici hard e contraccolpi stoner trovano la maniera di intendersi e coordinarsi alla perfezione.
Chiaramente, non aspettatevi niente di nuovo all'orizzonte. D'altronde non era questa la migliore occasione per calare eventuali assi nella manica. Sottovalutare tuttavia più del dovuto la collaborazione sarebbe fin troppo ingeneroso: le canzoni, pur non facendosi foriere di chissà quali rivoluzioni, attestano una passione schietta e verace nei confronti di un immaginario che risorge (per l'ennesima volta, ma non è certo un problema) a nuova vita. Pare proprio di poterle vedere, queste lande sterminate, soli in mezzo al nulla: provate ad ascoltare l'album alla guida, e vi renderete conto di quanto questo sia vero.
05/06/2012