Il canzoniere di Alberto Mariotti libera infatti dal vivo tutta la propria guizzante eloquenza psichedelica, attraverso un delirio virtuoso di invenzioni, citazioni impertinenti, calembours e birignao beefheartiani (buttate un occhio all'intestazione del disco, per tacere poi di titolo e copertina). In questo senso, la vera e propria soglia, il punto di fissione è rappresentato dai quindici minuti di "From Texarkana To Texarkana" che, a detto dello stesso Katarro, segnano la fine del programma "ufficiale" e spalancano l'abisso oscuro delle infinite possibilità ("che forse è quasi più bello") dove tutto si ritrova a patto però di perdersi per sempre.
I blues apocrifi e spettrali di "Beach Party", nei quali un minimalismo neo-primitivo (in odore di Jandek e Fahey) si metteva mirabilmente al servizio di visioni barrettiane, si trasfondono così nel sinfonismo titanico di "The Halfduck Mistery" e quel che ne origina è un carnevale ebbro, un sogno esotico che stordisce con la furia acidissima delle sue tinte abbacinanti (il dittico "I Was The Musonator"/ "The First Years Of Bobby Bunny", non lascia indifferenti). Tutto ciò anche grazie ai valorosi musicisti che hanno dato manforte nell'occasione a Katarro, ovvero il violinista Wassilij Kropotkin (complimenti per lo pseudonimo, appropriatissimo in ogni senso) e il batterista Simone Vassallo.
Se c'era dunque bisogno di un'ulteriore prova del talento di questa giovane e defilata stella del rock nostrano, eccovi serviti.
(08/03/2012)