Alla boa del secondo album, sempre fedele al magistero contorto dei numi tutelari Barrett, Ayers, Wyatt, Cope e Hitchcock, l’autore toscano costruisce un proprio disastrato lunapark mentale, imbevuto fin quasi a scoppiare di un immaginario liquido, fibroso e intricato, che si stritola e ricostruisce nelle pieghe tortuose di sé stesso (ascoltate le mutazioni vaneggianti di pezzi come “Pop Skull” o “Pink Clouds Over The Semipapero”, sempre governate da una geometrica disciplina immaginativa). In un simile impasto si ritrova, in egual misura, tanto una poesia balbettante e stonata (andatevi a smangiucchiare i testi) quanto la sublime illogicità di uno stile paurosamente iperbolico.
Samuel Katarro, sempre indeciso tra farsa clownesca e incubo psicotico, riesce ad aprire una sottilissima fenditura dalla quale sporgersi e spiare il caos del suo cervello generoso, tra bordate di country-western alla metedrina (“Three Minutes In California”) e arditi melodrammi psichedelici (“9V”) che si barcamenano zoppicando sulle assi schiodate di un blues acustico sempre capace di spalancarsi in visioni cosmiche dalle acidule tinte kraut-freakedeliche.
Se seguirete le molliche lasciate cadere da quest’uomo come stelle sulla vostra testa, ritroverete la strada per quel paese delle meraviglie acide che forse stavate cercando, senza nemmeno saperlo.
(14/06/2010)