Pain is not alone
P-a-i-n is not alone
Pain i-s not a-l-o-n-e
P-a-i-n is n-o-t alone
Persi come meretrici ancestrali in un giardino di delizie terrestri, arranchiamo nel buio pesto, rifuggiamo il bagliore di un sole disumano, contempliamo l’arcano di una stella, mentre ci sfila di fronte la storia dell’umanità, buona, cattiva, maldestra, geniale, alla ricerca di un
Pater, che, invocato, sogghigna, si nasconde e ci lascia nella smania perenne di un senso mortale. Il demonio non è che un’invenzione fumettistica, perché l’archivio dei secoli è una sfera infuocata, densa, refrattaria a qualsiasi acqua santa, e volteggiare tra le fiamme è la nostra missione, trovando periodico riparo nelle crepe di una Terra arida, di un Cielo enigmatico e imponente, di un’Aria implasmabile. E poi la sfilata delle più strabilianti parate.
Il dramma in tre atti è concluso: prima il corto circuito (“
Tilt”), poi la deriva (“
The Drift”) e, infine, lo smarrimento terribile e salvifico nei primordi di un’antica, devastante bellezza, celebrato in quest’oscuro magma linguistico, “Bish Bosch”, opera ultima di un uomo complesso.
Scott Walker, a quasi settant’anni, continua a nutrirsi d’arte e timor panico, per nulla pacificato, vivificato da una sorta d’inquietudine attiva, che ne tende muscoli, cuore e psiche, celando uno sguardo forse troppo penetrante per un interlocutore qualunque. “I was thinking about making the title refer to a mythological, all-encompassing, giant woman artist.” L’arcano dell’opera fa capolino dalle parole di Scott, e Hyeronimus Bosch dispiega il negativo di un eterno, mitologico, pauroso femminino – quel
bish, slang di
bitch - generatore di un caos maestoso e impressionante. Così l’opera sembra aprirsi a numerose suggestioni in bianco e nero, disvelando non solo il tripudio di una densità cromatica, ma anche il dolore asciutto della sua assenza.
Iniziato a comporre nel 2009, e registrato episodicamente nei tre anni successivi, l’album, che prosegue il rapporto con la 4AD, è opera di uno spirito esaltato dalla traboccante intensità del cosmo, che prova a tirarne visionariamente le fila attraverso una scrittura coltissima, allucinata, lucida e, a tratti, spietata. La trama sonora, architettura complessa di chitarre violate, clangori sintetizzati, percussioni tribali, fiati marziali assorbe e irretisce, scaraventando in una visione troppo intensa per un approccio unidirezionale.
E allora perché ascoltare un’opera che si annuncia soffocante? Perché la cultura, la storia, il progresso hanno sepolto le viscere e viziato l’intelletto.
“'See You Don’t Bump His Head'” introduce e contestualizza l’inizio di un viaggio al termine dell’universo: quasi trenta secondi di sole, pneumatiche percussioni, e poi l’arrivo dell’io narrante, che, perentoriamente, inizia a intercalare il racconto come un enigma (“While plucking feathers from a swan song”); subito dopo pare di sentire un
angel of ashes, che,
acapella, come in un flusso di coscienza, chiede scusa a Dio della propria maldestrezza cosmica, per poi lasciarsi andare a un delirio punteggiato da rumori animali, industriali, infernali, spezzati da un’oracolare chitarrina western, come intorno al 4.40’, e, infine, violini clamorosamente celestiali soppressi da nuovi, secchi cigolii (“Corps De Blah”).
“Phrasing”, introdotta dalla dimessa, sublime poesia della strofa “Pain is not alone”, più volte scandita con una modulazione baritonale, che, mesmericamente, va a intrecciarsi a un tropicalismo percussivo, è, forse, la traccia più vicina alla forma-canzone, magnetica e ficcante come uno spillo febbricitante nella testa. E ciò che accade subito dopo è “SDSS1416 + 13B (Zercon, A Flagpole Sitter)”, colata lunga quasi ventidue minuti di astro-storia, nella quale Attila diventa pretesto per un intreccio di casualità tra passato e presente: la scoperta scientifica del corpo sub-stellare SDSS1416 + 13B, noto anche come
Brown Dwarf, identico al dispregiativo con il quale un nano moro, Zercon, veniva dileggiato presso la corte del re degli Unni, insieme con la figura novecentesca e romanzata del
Flagpole Sitter; ventidue minuti sospesi tra il silenzio rituale ed il rumore sacrale, in una giostra onirica di fiati liturgici (lo shofar) e cerimoniali (il kudu).
“Epizootics!” è il singolo antropologicamente ricolmo di richiami e suggestioni, chiamato a segnare la linea di demarcazione tra la prima e la seconda metà del disco: strumenti ed effetti hawaiani e implosioni esplose in danze sacrificali, tra cui si fa largo la voce di Scott, magistrale interprete di uno psicodramma civile.
Nelle ultime tracce, il pulviscolo è ancora denso: dai picchi lirici di “Dimple” (“November in july/ Apropolis lip/ to where/ acid-fast/ fly”), agli incubi dilatati, rallentati e dolenti, scheletrici ed essenziali in un sottofondo di spade affilate (“Tar”) e alle ossessioni di un primitivismo zoomorfo in "Pilgrim" (“Heya, heya, heya, heaya/ Room full of mice. Room full of mice. Room full of mice. Room full of mice.”).
“The Day The 'Conducator' Died (An Xmas Song)”, dedicata alla possibile umanizzazione di una confusa e schizofrenica disumanità, quella di Nicolae Ceausescu, il dittatore della Romania che si auto-proclamò
conducator, processato ed ammazzato il 25 dicembre del 1989, è la ballata-capolavoro che chiude con mesta e paradossale soavità le umane e oltre-umane vicende.
Depressione e reazione, panico e tensione psichica, allucinazioni e schermaglie spirituali, esseri umani e disumani, animali e bestie, proto-passato e post-futuro, distanze siderali e profondità abissali, nichilismo ed emotività possono chiudere davvero il cerchio?
Questo non ci è dato saperlo, ed è affascinante sia così. Non ci resta che coltivare lo stupore per un prossimo, spiazzante romanzo, di cui Scott Walker gioca col “The Guardian”: “I've made three records in the same atmosphere, and i feel i have to do something really different next time. Just for my own stimulation, something lighter. Maybe a dance record."
L’esorcismo è compiuto, la catarsi è servita.
01/12/2012