La strada che conduce al pub sotto casa è sempre più trafficata. Vecchi sbronzoni, cassintegrati cronici, nullafacenti dediti alle carte e al gioco delle freccette. Passano gli anni ma le usanze non mutano. Lo sa bene Phil Mogg, ogni tanto un salto al bancone lo fa ancora, quasi a giustificare le origini delle rughe che ne circondano i tratti del viso, specchio di una vita dai connotati duri e puri, viscerali, privi di compromessi. Sono uno di voi.
Quella degli Ufo rimane anche nel 2012 una strada polverosa, trafficata, ricca di pacche sulle spalle, di pacchetti di sigarette, di esistenze faticose, sudate, piene di pathos. Un tragitto votato a un hard-rock muscoloso ma mai vuotamente ginnico, sempre più pervaso da spinte blues. Un gioco senile ma mai stanco. Le gambe girano ancora bene, insomma. Certo sarà difficile affezionarsi senza remore agli ultimi riff, a qualche pregevole solo, a un ritornello che rimandi gli antichi batticuore di "Lights Out" o ai tour de force modello long jam di "Rock Bottom". Ma compilare l'ultima schedina o chiedere un'ultima mano di poker con il sottofondo sofferto di un "Angel Station" vale ancora la candela. Che brucia incessante tra le trame della consueta "Fight Night", ore piccole trascorse a rivendicare la propria presenza, a combattere per essa, come dei veri macho a testa alta, con sguardo fiero.
C'è chi si perde, chi non ce la fa più, come Pete Way, bandiera indomita fino all'altro ieri, ma ormai troppo spossato per girare tra i vicoli polverosi con il basso a tracolla. Mogg non dimentica, non tradisce i fratelli, continua senza di lui ma non lo sostituisce nei credit. Si appoggia però sempre più alla sua nuova spalla, quella elastica, sensibile, ancora fresca di Vinnie Moore, storico esponente della mitica squadra degli shredder neoclassici, un tempo prima in classifica e in fuga nella Premier League della sei corde, una ventina di anni orsono.
L'americano ancora capellone ha accettato la sfida quasi un decennio fa, ha smussato gli angoli, asciugato il suo stile, recitato la parte del confidente, del consigliere. Dell'amico. Eccolo allora infilzare, impreziosire in maniera rabbiosa ma elegante trame non proprio memorabili come "Mojo Town" o le ordinarie storie di vita vissuta e di illusioni sognate ma infante di "Wonderland". Un gioco di fill, di accelerazioni, di frenate, un fraseggio mai fine a se stesso ma perfettamente incanalato, quasi una seconda voce, dal suono scuro, caldo, eppure acuto, un perfetto mix tra Gibson e Fender.
Che esplode definitivamente nella soul ballad "Burn Your House Down": partenza rarefatta, un approccio confidenziale, delicato, via via sempre più raschiato, aggressivo, l'arte del bending che si palesa, l'uso emozionale della leva che rende le note un vero e proprio lamento. Tutto intorno si avvertono cori che sanno di nero lontano un miglio. Un sorriso tra i denti te lo strappa sempre la creatura di Mogg e ti fa venire sete. A pint of beer, please. Thank you.
05/03/2012