Perché a tutti gli effetti questo “Child Ballads”, disco realizzato in compagnia del cantautore e polistrumentista roots-folk Jefferson Hamer, difficilmente darà il via a un sodalizio duraturo (non che non glielo si auguri, naturalmente), ma è tutt'altro che figlio del caso, di un incontro momentaneo coltivato per tappare i “tempi morti” tra una pubblicazione e la successiva. In realtà, era da molto che la cantautrice del Vermont nutriva in seno il desiderio di dare alle stampe un lavoro simile, e già qualche dichiarazione in tal senso era venuta a galla prima delle registrazioni del suo ultimo album solista. Dopo di che, la collaborazione con Hamer, già altre volte al suo fianco, e una scrupolosa opera di documentazione e selezione, hanno fatto il resto, consentendo alla musicista di concretizzare un'idea tenuta in serbo a lungo.
Fatte le debite premesse, che disco è “Child Ballads”? Documentazione, selezione? E quel titolo poi: che l'album contenga delicate ninne-nanne per bambini? Domanda retorica quest'ultima, ché la risposta è ovviamente negativa, e per una ragione ben precisa. I più informati sicuramente avranno già svelato l'arcano, per tutti gli altri basti sapere che quel “Child” piazzato a mo' di epiteto non si riferisce a infanti che faticano a prendere sonno, bensì al letterato e filologo Francis James Child, che ha speso parte della sua vita nello studio critico e nel recupero delle ballate popolari di diverse nazioni, ivi comprese quelle dell'Arcipelago Britannico, raccolte e catalogate in una imponente collezione.
Ed è proprio da questo voluminoso archivio, da questo ricchissimo canzoniere, che già tanti in passato hanno utilizzato come fonte d'ispirazione (da Bob Dylan ai Fairport Convention passando per i Fleet Foxes), che attinge il duo americano, il quale dopo un'attenta lettura della corposa antologia ha selezionato sette delle trecentocinque ballate catalogate, e le ha riadattate ai propri fini artistici, in un prezioso processo di rilettura che non ha minimamente intaccato l'arcana potenza evocativa degli originali. Appropriatamente riarrangiate e rielaborate, queste ballate mostrano invece quanto ancora sappiano rivolgersi al presente e affascinare anche un pubblico non necessariamente avvezzo ai linguaggi del folklore, specialmente sotto la veste divulgativa che la Mitchell e Hamer hanno disegnato loro.
Niente panico: non vi è alcun ricorso a strumentazione elettronica o a qualche bizzarro escamotage compositivo. Sotto questo punto di vista, i due musicisti hanno tenuto pienamente fede all'austerità del canone originale, abbinando alle raffinate armonizzazioni vocali il pizzicare delle loro chitarre acustiche e nient'altro, preservando l'atmosfera incontaminata, per non dire magica, delle ballate. E' più che altro nella scelta di attualizzare la lingua, passando dalle cromie antiche dell'inglese arcaico a quello contemporaneo, che si coglie lo sforzo divulgativo dell'opera, tesa quindi ad introdurre a una platea potenzialmente ignara un mondo avvolto dalle nebbie del tempo, in cui realtà e immaginazione non sono poi così distanti.
Lo sforzo, manco a dirlo, viene ripagato ampiamente nell'esito: i moduli melodici su cui si basano le ballate folk anglosassoni, ripetuti costantemente, uguali a se stessi all'interno dei brani, in questo breve florilegio (poco meno di quaranta minuti di musica) riescono perfettamente a trasportare l'ascoltatore nel loro universo incantato, fatto di tragiche peripezie, storie di ascese e ricadute, destini ineluttabili e creature sovrannaturali.
Certo, talvolta le scelte non sono proprio delle più originali, ma è l'arrangiamento a fare davvero la differenza, stravolgendo completamente quanto invece si poteva dare per assodato. Senza entrare nel merito dell'analisi dei vari brani (esercizio alquanto sterile in quest'occasione), basti prendere a riferimento la conclusiva “Tam Lin”, totalmente modificata nella struttura e nell'incedere rispetto a gloriose interpretazioni quali quelle dei Fairport Convention o dei Current 93, oppure l'incantevole passo a due di “Geordie” (riproposta in una chiave più sommessa e “domestica”, ma non meno espressiva rispetto all'incredibile versione del nostro Fabrizio De André) per constatare quanto al validissimo mestiere si accosti tutta una componente di elaborazione e ricerca personale, che fa di un disco simile un racconto individuale e collettivo al tempo stesso.
Si diceva insomma quanto fosse difficile che a un progetto simile venisse dato un seguito. Quale che sia la sua sorte, poco importa in fin dei conti: già in queste sette rivisitazioni Anaïs Mitchell, riallacciandosi ai costumi musicali più profondi di una lontanissima terra d'origine (d'altronde, è dalla perfida Albione che pur discendono, molti dei primi coloni), mostra di saper destreggiare con la dovuta padronanza il suggestivo vocabolario del folk inglese, senza mai denaturarne l'essenza o guardarlo con un occhio turistico. A questo punto, non resta che domandarsi cosa abbia intenzione di sottoporre alla nostra attenzione negli anni a venire.
(18/03/2013)