Forse rimasta (immeritatamente) nelle retrovie del vasto quadro del folk americano contemporaneo, scalzata a destra e a manca da stelle e stelline buone per una stagione e poco più, in quest'ultimo decennio Anaïs Mitchell ha invece dato prova di essere un'autrice versatile e peculiare, seguendo a ogni giro di boa traiettorie sempre diverse, che le hanno consentito di tracciare una rotta tra le più imprevedibili degli ultimi tempi. Se col più recente “Young Man In America”, che la vedeva tentare di riappropriarsi delle più remote tradizioni musicali del suo Paese, si era manifestato un leggero calo d'ispirazione, a causa di una penna non particolarmente pregnante, un anno dopo sembra che le cose siano tornate a ruotare per il verso giusto, anche se in un progetto che devia tutto sommato dai suoi usuali binari.
Perché a tutti gli effetti questo “Child Ballads”, disco realizzato in compagnia del cantautore e polistrumentista roots-folk Jefferson Hamer, difficilmente darà il via a un sodalizio duraturo (non che non glielo si auguri, naturalmente), ma è tutt'altro che figlio del caso, di un incontro momentaneo coltivato per tappare i “tempi morti” tra una pubblicazione e la successiva. In realtà, era da molto che la cantautrice del Vermont nutriva in seno il desiderio di dare alle stampe un lavoro simile, e già qualche dichiarazione in tal senso era venuta a galla prima delle registrazioni del suo ultimo album solista. Dopo di che, la collaborazione con Hamer, già altre volte al suo fianco, e una scrupolosa opera di documentazione e selezione, hanno fatto il resto, consentendo alla musicista di concretizzare un'idea tenuta in serbo a lungo.
Fatte le debite premesse, che disco è “Child Ballads”? Documentazione, selezione? E quel titolo poi: che l'album contenga delicate ninne-nanne per bambini? Domanda retorica quest'ultima, ché la risposta è ovviamente negativa, e per una ragione ben precisa. I più informati sicuramente avranno già svelato l'arcano, per tutti gli altri basti sapere che quel “Child” piazzato a mo' di epiteto non si riferisce a infanti che faticano a prendere sonno, bensì al letterato e filologo Francis James Child, che ha speso parte della sua vita nello studio critico e nel recupero delle ballate popolari di diverse nazioni, ivi comprese quelle dell'Arcipelago Britannico, raccolte e catalogate in una imponente collezione.
Ed è proprio da questo voluminoso archivio, da questo ricchissimo canzoniere, che già tanti in passato hanno utilizzato come fonte d'ispirazione (da Bob Dylan ai Fairport Convention passando per i Fleet Foxes), che attinge il duo americano, il quale dopo un'attenta lettura della corposa antologia ha selezionato sette delle trecentocinque ballate catalogate, e le ha riadattate ai propri fini artistici, in un prezioso processo di rilettura che non ha minimamente intaccato l'arcana potenza evocativa degli originali. Appropriatamente riarrangiate e rielaborate, queste ballate mostrano invece quanto ancora sappiano rivolgersi al presente e affascinare anche un pubblico non necessariamente avvezzo ai linguaggi del folklore, specialmente sotto la veste divulgativa che la Mitchell e Hamer hanno disegnato loro.
Niente panico: non vi è alcun ricorso a strumentazione elettronica o a qualche bizzarro escamotage compositivo. Sotto questo punto di vista, i due musicisti hanno tenuto pienamente fede all'austerità del canone originale, abbinando alle raffinate armonizzazioni vocali il pizzicare delle loro chitarre acustiche e nient'altro, preservando l'atmosfera incontaminata, per non dire magica, delle ballate. E' più che altro nella scelta di attualizzare la lingua, passando dalle cromie antiche dell'inglese arcaico a quello contemporaneo, che si coglie lo sforzo divulgativo dell'opera, tesa quindi ad introdurre a una platea potenzialmente ignara un mondo avvolto dalle nebbie del tempo, in cui realtà e immaginazione non sono poi così distanti.
Lo sforzo, manco a dirlo, viene ripagato ampiamente nell'esito: i moduli melodici su cui si basano le ballate folk anglosassoni, ripetuti costantemente, uguali a se stessi all'interno dei brani, in questo breve florilegio (poco meno di quaranta minuti di musica) riescono perfettamente a trasportare l'ascoltatore nel loro universo incantato, fatto di tragiche peripezie, storie di ascese e ricadute, destini ineluttabili e creature sovrannaturali.
Certo, talvolta le scelte non sono proprio delle più originali, ma è l'arrangiamento a fare davvero la differenza, stravolgendo completamente quanto invece si poteva dare per assodato. Senza entrare nel merito dell'analisi dei vari brani (esercizio alquanto sterile in quest'occasione), basti prendere a riferimento la conclusiva “Tam Lin”, totalmente modificata nella struttura e nell'incedere rispetto a gloriose interpretazioni quali quelle dei Fairport Convention o dei Current 93, oppure l'incantevole passo a due di “Geordie” (riproposta in una chiave più sommessa e “domestica”, ma non meno espressiva rispetto all'incredibile versione del nostro Fabrizio De André) per constatare quanto al validissimo mestiere si accosti tutta una componente di elaborazione e ricerca personale, che fa di un disco simile un racconto individuale e collettivo al tempo stesso.
Si diceva insomma quanto fosse difficile che a un progetto simile venisse dato un seguito. Quale che sia la sua sorte, poco importa in fin dei conti: già in queste sette rivisitazioni Anaïs Mitchell, riallacciandosi ai costumi musicali più profondi di una lontanissima terra d'origine (d'altronde, è dalla perfida Albione che pur discendono, molti dei primi coloni), mostra di saper destreggiare con la dovuta padronanza il suggestivo vocabolario del folk inglese, senza mai denaturarne l'essenza o guardarlo con un occhio turistico. A questo punto, non resta che domandarsi cosa abbia intenzione di sottoporre alla nostra attenzione negli anni a venire.
18/03/2013