Non è un disco facile, quello di cui si sta per parlare. Non è un disco per tutti, ma per quei pochi è potenzialmente un capolavoro assoluto. E sì, chi vi scrive è solito non farsi grossi problemi nell'usare questa fantomatica parola, nell'identificare il capolavoro come un evento che non sia più unico che raro, far corrispondere a quella parola non per forza la definizione di disco perfetto, ma anche solo e semplicemente quella di disco in grado di lasciare un segno indelebile.
Ma in questo caso la storia è diversa, qui sì che per capolavoro s'intende un disco perfetto sotto tutti i punti di vista, da quello prettamente tecnico a quello emotivo/atmosferico, transitando pure per quello legato all'originalità.
Il fatto che sia ancora una volta Denovali a firmare una produzione oltre l'ordinario non è certo stupefacente, e non è che il coronamento di un anno d'oro vissuto da un'etichetta che ha sbagliato davvero pochissimo dalla sua nascita, curando con perizia ogni sua uscita, arruolando musicisti provenienti dai mondi più disparati e trattandoli tutti come se fossero parte integrante di una famiglia.
E mentre Denovali, al pari della sola 12k, prosegue nello scrivere il manuale dell'etichetta perfetta, il Dale Cooper Quartet – in realtà terzetto formato dalle menti dei bretoni Gael Loison, Yannick Martin e Christophe Mevel – richiama per la terza volta l'ensemble dei Dictaphones partorendo un monumentale amalgama di jazz, impro, ambient, dark-wave e memorie cosmiche. Qualcosa di impensabile e indefinibile, insomma, qualcosa che va oltre.
Oltre i due dischi precedenti che suonano oggi come autentiche preparazioni a quest'ultimo, oltre le definizioni, oltre Jan Garbarek dal quale molto prende in eredità, oltre Witxes, che su simili coordinate aveva prodotto un altro gran bel lavoro dell'annata Denovali. Nei venti minuti di “Brosme En Dos-Vert” si va oltre qualsiasi limite: partenza dal cosmo di AUN, atterraggio sul suolo lunare, ripartenza a suon di rivoli industriali, perdita in un buio dove il sassofono riecheggia sinistro ma rassicurante, ingresso ed uscita da una tempesta di droni à-la-Tim Hecker, deflagrazione sfumata fra arpeggi delicati con annessa scia luminosissima in dissolvenza. E tanto basterebbe a chiudere il discorso. Ma questo è solo l'inizio.
In “Nourrain Quinquet” entra la voce, splendida, di Ronan Mac Erlaine, a duettare col sassofono, e quel che ne esce è una ballata estesa da pelle d'oca, uno spunto che David Sylvian farebbe bene a non ignorare per un futuro prossimo. “Calbombe Camoufle Fretin” sono i Sigur Rós di “Valtari” nell'ugola di Alicia Merz che si fondono a Greg Haines in un paradiso parallelo, contrapposto all'inferno inscenato dall'incedere minaccioso e inquieto di “Ignescence Black-Bass Recule” e dalla tortura fervida di “L'escollier serpent éolipile”, sorta di incontro in salsa impro fra Ulver e Cindytalk. Fra sospiri e desolazione procedono i dieci minuti di “La ventrée rat de cave”, ambientata nel mezzo di un bosco umido e fangoso, prima che il trip-hop de “Il bamboche empereurs” immerga per un lasso di tempo analogo in un abisso di sirene e tritoni.
Poi c'è “Céladon Bafre”, impro-writing che ricorda un po' Scott Walker in fase di transizione e un po' lo Steven Brown di “Half Out”. Infine “Lampyre bonne chère”, arpeggi solenni su corale sognante, vetta di un monte tanto arduo da scalare quanto ricco di meraviglie, culmine ultimo, fine del viaggio. Nient'altro da dire, nulla da aggiungere a parole già superflue. Oltre.
22/10/2013