Li avevamo lasciati poco meno di un anno fa, i Flaming Lips, a condividere le proprie escursioni cosmico-psichedeliche con una masnada di illustri compagni di viaggio in un’opera che, pur mantenendosi saldamente ancorata all’immaginario della band, risultava, nella sua ibridazione di voci, un capitolo a sé stante nella sua discografia.
L’ennesima bizzarria che, facente seguito a una dissacrante “barrettizzazione” di "The Dark Side Of The Moon" e a una sfida concettuale alla forma del pop-rock intitolata “Strobo Trip”, sembrava però aver distolto l’attenzione dei Nostri dal concepimento di un “autentico” successore dell’ottimo “Embryonic”, datato 2009.
Sospetto prontamente smentito dal qui presente “The Terror”, accreditato (al di là di una traccia, “You Lust”, dove fanno capolino i Phantogram) ai soli Flaming Lips e contenente una decina scarsa di inediti ancora una volta ben lungi dal definirsi in senso stretto “canzoni”. Il beat meccanico, intervallato da cacofonie chitarristiche, di “Look... The Sun Is Rising” introduce una nuova opera di science fiction in musica che fa tabula rasa delle zuccherose melodie con cui si risolvevano le battaglie tra Yoshimi e i robot rosa e che, piuttosto che sfruttare le sue stratificazioni sonore in una forma compiuta, le mette sul piatto per destrutturarle.
Ne deriva uno scenario di aridità stordente in cui orientarsi è impresa ardua. Lo sguardo ironico del precedente “Heady Fwends”, che sembrava osservare la vita umana da un iperspazio della finzione, ora si restringe su un pianeta desolato in cui lo spazio per la boutade viene occupato da deserti dell’anima. In un album concepito come vano inseguirsi di riff circolari intervallati da escursioni nel nulla assoluto (programmatici, in questo senso, i tredici minuti di “You Lust”), è la voce di Wayne Coyne a ritrovarsi non-protagonista della rincorsa nel vuoto. Spersonalizzata e annegata in un oceano della stasi, finisce per lasciare il posto alla propria controparte androide, una macchina per melodie sintetiche che evoca solo il miraggio della sua caratteristica imperfezione umana.
Chiamato a parafrasare il “Terrore” che dà il titolo all’album, lo stesso Coyne lo ha recentemente identificato con l’inquietudine generata dalla consapevolezza che il mondo può sopravvivere anche senza amore. Una prospettiva angosciante, certamente dolorosa da raccontare, come certifica una “Try To Explain” che definiremmo mirabile esempio di compiutezza pop, se non apparisse così determinante nel suo progressivo disperdersi.
Nessuna composizione, comunque, si risolve in una conclusione riconoscibile: ogni passo di questo viaggio straniante è parte di un continuum monolitico che si avvolge disperatamente su sé stesso, fino alla claustrofobica conclusione “Always There... In Our Hearts”, in cui il riff di apertura dell’album ritorna come monito intimidatorio a ricordare un’impossibilità di fuga.
Da un punto di vista strettamente critico è comunque necessario puntualizzare che, se “The Terror” riprende il filo da “Embryonic”, quantomeno nell’ossatura free form su cui si sviluppano logoranti traversate interstellari, raramente riesce a ripeterne gli slanci.
Di certo meno eterogeneo e più propriamente concepito come flusso di coscienza da assimilare tutto d’un fiato, l’album rischia alla lunga di divorare sé stesso e l’ascoltatore nel vuoto che si prefigura di rappresentare. Capita così che, nella foschia generale, possenti jam session supportate da ritmiche oblique e melodie accattivanti (“Butterfly, How Long Does It Take To Die”) vengano contestualizzate in circostanze in cui la volontà di esprimere un senso di abbandono si confonde con il lasciare alcune tracce letteralmente abbandonate a sé stesse (“You Are Alone”).
Ciò che invece non si potrà mai rimproverare ai Flaming Lips, ed è il motivo per cui “The Terror” conserva in ogni caso un buon motivo di interesse, è la grandezza della band intesa come capacità mimetica di diventare un tutt’uno con gli universi che è in grado di creare. Se alla fine dei cinquantacinque minuti complessivi l’ascoltatore è tanto affaticato quanto segnato dalla tristezza siderale che sgorga da ogni distorsione chitarristica esasperata, da ogni spazio vuoto di malinconica contemplazione o dal rassegnato falsetto di Coyne, è evidente che quest’album riesce a tenersi in vita dignitosamente anche (o soprattutto) per merito del lavoro nella fase post-compositiva. Lo si chiami pure “mestiere”, ma nella consapevolezza che oggi sono dannatamente pochi i mestieranti capaci di esprimere una simile vitalità artistica.
21/04/2013