“Coin Coin Chapter Two: Mississippi Moonchile”, secondo capitolo della saga antropologico-musicale di Matana Roberts, è uno dei dischi più attesi dell'anno: il plebiscito critico e le discussioni nei forum stanno consacrando questo progetto come uno degli album più intensi di questo 2013.
C’è il rischio che tale clamore possa essere controproducente e fuorviante ai fini di una sua completa valutazione, infatti un approccio diretto con le creazioni della musicista americana può avere mille risvolti e non sempre piacevoli. Musica complessa e poco familiare per un ascoltatore medio, il jazz soffre della banalità dell’approccio fugace e il suo piacere profondo deriva solo da una frequentazione più assidua dei suoi canoni.
Dopo anni e anni di musica jazz pulita e edulcorata dalle esigenze degli audiofili o eccessivamente legata a delle strutture rigide e scolastiche, la proposta della Roberts è oltremodo scioccante: il ripristino delle matrici avviene senza compromessi, la radice culturale africana riemerge voluttuosa con inediti accostamenti sonori che hanno la forza mesmerica del canto ancestrale.
La forza e l’energia che hanno reso unico e differente il pregevole capitolo uno "Coin Coin Chapter One: Gens de couleur libres" sono ora forgiate da un ensemble ridotto a solo sei elementi, le voci che reggevano la struttura narrativa sono ora un magma evocativo che affida al tenore Jeremiah Abiah le tensioni, i toni e i colori di una rilettura viscerale che mette insieme frammenti di storia, vita comune e feste rituali.
Lo snodo stilistico resta il free-jazz che Matana Roberts modella sulle orme di grandi predecessori come Sun Ra, John Coltrane, Albert Ayler e gli Art Ensemble of Chicago, senza tralasciare gli elementi sviluppati dal dixieland e dal blues.
Quello che ancora una volta rende unico il processo creativo dell'artista è la rilettura degli elementi jazz attraverso l’interazione della musica modale con post-rock e musica tribale; inoltre la parola diventa puro strumento senza frammentare l’immagine sonora che l’artista definisce panoramic sound quilting e che l’ascoltatore percepisce come un nuovo archetipo di jazz strumentale.
L’uso più marcato di dialoghi e i contributi vocali di Jeremiah Abiah sono un altro elemento potenziale di disturbo, che invece fa vibrare spesso il suono più relaxed e meno impetuoso di questo secondo capitolo.
L’album ad ogni riascolto assume sempre di più connotati epici: lo scorrere dei diciotto episodi è fluido e passionale, “River Ruby Dues” eleva improvvisamente il tono emotivo, mentre Matana Roberts mette insieme ricordi e ambizioni culturali con splendidi inserti di spoken word, prima nella superba “Amma Jerusalem School” e poi nel vivace incontro-scontro tra musica blues e tracce di musica classica di “Responsory”, dove a vincere è la nobiltà degli intenti.
Va comunque precisato che il termine epico può assumere diverse connotazioni: prendendo a prestito la storia del cinema, direi che qui il tono epico non è quello di “C’era una volta in America” di Sergio Leone, ma quello de “I Sette Samurai” di Akira Kurosawa; poco spettacolare e quasi mai edulcorata, l’epica di “Coin Coin Chapter Two: Mississippi Moonchile” si sviluppa su continue stratificazioni sonore e culturali, che, messe insieme, creano una inarrestabile alchimia.
Sempre ricca di splendide intuizioni liriche (si ascolti “Lesson”) la musica si nutre della storia e del racconto: non è più l’oppressione razziale, ma la nostalgia e la cultura della memoria il punto nodale della nuova fase musicale di Matana Roberts, qui sempre abile nel regalare a riff semplici del suo sax quel potere persuasivo che disorienta e cattura l’ascoltatore.
Con eleganza e grande consapevolezza culturale il progetto mette insieme le emozioni di una donna afroamericana contemporanea con il suo passato senza dar vita a falsità mitologiche, ma raschiando il confine tra il sentimento e la realtà quotidiana.
Quando si giunge allo straordinario trittico finale di “Thanks Be You”, “Humility Draws Down New” e “Benediction” ogni resistenza è crollata, la bellezza si impossessa di ogni nota e Matana Roberts trascina tutti verso una spiritualità che pur con toni più mesti e meno innovativi del precedente album, rinnova l’apoteosi di una rinascita totale del jazz più puro e ancestrale, che avevamo lasciato, incauti, in mano a pochi adepti, e che quest’album rende di nuovo un linguaggio universale.
29/10/2013