A Steve Roach certi titoli ridondanti e ambiziosi sono sempre piaciuti parecchio. Sarà che nella sua ormai pluritrentennale carriera, il magnate californiano dell'ambient music ha a ben vedere sempre scelto soggetti imponenti e complessi da rappresentare, riuscendo con le sue variegate interpretazioni a inscenarli nei minimi dettagli evitando quasi sempre il ricorso a tecniche eccessivamente cinematografiche. Ma a conti fatti l'unico precedente ambizioso al pari di una ricerca sulla “fonte del tutto” era stato quello sulla “fonte del mondo”: “World's Edge”, anno 1992, ovvero la risposta altisonante a chi diceva che sarebbe stato impossibile, per lui, andare oltre lo scossone totalitario del capolavoro “Dreamtime Return”.
Non è dato a sapere se “At The Edge Of Everything” nasca effettivamente tenendosi dietro il medesimo bagaglio ispirativo raccolto vent'anni or sono, ma di sicuro il soundworld affrontato è totalmente diverso. Ad allontanare l'ultimo parto del 2013 di Roach da uno dei pezzi storici della sua discografia è anche l'intero progetto: qui siamo di fronte alla registrazione di un'esibizione dal vivo corrispondente a una delle poche occasioni in cui il californiano ha accettato di portare il suo armamentario in Europa e per la precisione all'E-Live Festival di Ehindoven. E ad ascoltare i suoni proposti nell'ora e mezza della stessa non è difficile altresì collocare la stessa in quel periodo in cui a dominare nella sua produzione era l'entusiasmo per i suoni ambient-trance di produzione propria.
Uno sguardo alle note di copertina e l'impressione viene confermata, essendo il concerto datato 2000 e dunque nel contesto del tour di “Light Fantastic”, il capostipite assieme a “Body Electric” del periodo trancedelico di Roach, contemporaneo alla lavorazione al fianco di Jorge Reyes dell'altalenante “Vine ~ Bark & Spore”. Proprio da quest'ultimo provengono con tutta probabilità le influenze tribal che si sommano al suono, definendo così i confini delineati fin dal principio nel quarto d'ora aspro di percussioni viscerali e digeridoo di “The Edge Opens”, un autentico potenziale outtake del capolavoro dell'anno precedente. Come tutte o quasi le esibizioni di Roach, la costruzione è quella di un viaggio immersivo, che procede dopo l'ingresso nella malsana anticamera di “Serpents Rebirth”, autocontemplazione prolungata per dieci, interminabili minuti.
Sono proprio le scelte di tempo a impedire al complesso e, al solito, variegatissimo e suggestivo serpentone di muoversi senza inciampare: “Hyperpassage” attacca poco dopo a giocare con arpeggiatori e filtri analogici e bisogna aspettare metà pezzo perché le più classiche distese soniche del californiano diano colore a un gelo macchinale che poco si addice al soundscape. Decisamente più riusciti il quarto d'ora “classico” di “Cloudwatching With The Trancemaker”, lungo tappeto brulicante di trancedelia in ebollizione, e il tribalismo alieno concentrato nella breve “Crossroads Of Three”. Il tuffo nel passato cosmico di “Apparition Celebration” è però un cambio di tendaggio forzato, riscattato appieno nel tocco di classe della chiusura di “Refractions Of Remembering”, approdo presso quel deserto che è terreno eternamente fertile per Roach.
Esperienza live al solito impeccabile, ma a livello musicale - complice anche un'eccessiva varietà stilistica - stavolta la perfezione è ben lontana.
08/03/2014