Nella sempre più ristretta cerchia delle moderne one-man band à-la F.M. Cornog (East River Pipe) o à-la Nick Saloman (Bevis Frond), un posto di tutto riguardo lo merita sicuramente il talentuoso Matt Rendon, cantante, polistrumentista e produttore che con il progetto Resonars (un vero e proprio gruppo solo nella sua incarnazione live) ha saputo dare forma ad un catalogo più che lusinghiero nella vivace nicchia del sottobosco garage statunitense. A quasi quattro anni dalla precedente uscita sulla lunga distanza e ad alcuni mesi dal prezioso Ep “Long Long Thoughts”, licenziato per Trouble In Mind, il rocker di Tucson torna in pista con il settimo album della sua band immaginaria, dedicato questa volta ai paesaggi brulli della natia Arizona. Lo scarto rispetto ai lavori del passato – che la sua attuale etichetta (l’encomiabile Burger) ha fatto in modo di ristampare – è del tutto trascurabile. Non occorrono che pochi istanti per appurarlo: l’avvio trottante di “Tomorrow Gears” con i suoi giusti aromi power-pop, il primo refrain infettivo, la prima accelerata chitarristica, i consueti eccellenti giochi a incastro delle voci e l’inconfondibile texture sottilmente psichedelica, alla maniera dei Love o dei Pretty Things.
Ancora una volta le canzoni di Rendon si offrono all’ascolto come cavalcate tamburellanti e disinvolte, poco impegnative ma sufficientemente stimolanti, forti di un taglio passatista credibile che non indugia in sterili ostentazioni o compiaciuta accademia. La formula è stringata, le strofe essenziali, i registri risaputi e le melodie votate a una gratificazione del tutto epidermica. Eppure in più di un frangente affiora come per paradosso un senso di freschezza contagiosa, tonificata dalle apprezzabili doti tecniche del musicista americano, e in meno di tre minuti si trovano regolarmente condensati assoli spigliati ma mai tronfi, ritornelli incalzanti e architetture corali approntate con grande perizia.
Già il secondo titolo in scaletta, “Invisible Gold”, chiarisce senza indugi come per Mr. Resonars l’inclinazione revivalista sia più che un tema estetico cruciale, quasi una missione, evidente perfino nel rispolverare la tradizione della “title track in differita” già onorata in un passato lontano da grossi calibri come Doors e Led Zeppelin (qui è il caso di “That Evil Drone”, stesso titolo del precedente Lp). Se il debito di riconoscenza verso gli Hollies si conferma illimitato e questa è solo la prima di innumerevoli scorribande in territori beatlesiani, gli impasti vocali sixties e le decorazioni jangle delle chitarre riportano senza alcun timore reverenziale anche in zona Paisley Underground.
Il lavoro sulle armonie è intrigante ma quello sulle percussioni si rivela in più occasioni non meno pregevole, per un insieme sonoro fluido che funziona con sorprendente precisione, non lesina sugli strappi ritmici ed omaggia con i Who uno degli eroi di Rendon, Keith Moon. Dopo l’ottimo mestiere esibito nella prima facciata, è con “Vanishing People” che Matt comincia davvero a sfoderare i fuochi d’artificio: indovina con dissimulata noncuranza una sequenza di hook prodigiosi inanellando un filotto di vere e proprie perle, tormentoni che riesumano il Lennon di “Rubber Soul” e “Revolver” con i Byrds del medesimo biennio nei panni di ideale backing band. Più che di plagio stilistico, per “John Stone Will Be Christian” o “I Had a Dream” ha però senso parlare di sconfinato atto d’amore, intavolato con entusiasmo da un artigiano di indubbio talento. Un finale all’insegna della spensieratezza guizzante conferisce ulteriori meriti all’ennesima gemma nascosta di una discografia tutta da scoprire.
22/02/2013