A sperarci, dopo così tanto tempo, ma soprattutto con carriere in solitaria pienamente avviate e consolidate, sarebbe stato a dir poco utopico, un ostinato sogno ad occhi aperti senza alcuna possibilità di concretizzazione. A quanto pare, la voglia di incrociare nuovamente i propri destini, di riprendere un discorso interrotto forse troppo repentinamente, è stata più forte di qualsiasi altra motivazione; dopo tentennamenti e difficoltà varie (rumours di un nuovo album circolavano già due anni addietro), il 2014 vede le Cibo Matto aggiungere finalmente il terzo capitolo al loro stravagante romanzo, tra i più lampanti esempi di obliquità popular degli ultimi 20 anni.
Assurte agli onori della cronaca e al successo indipendente a metà Nineties, unico caso di act giapponese capace di raccogliere molto più all'estero che in madrepatria (certamente pesò anche l'avere preso le mosse nel fertile ambiente underground newyorkese), Yuka Honda e Miho Hatori seppero cogliere, con una giocosità e un senso dello stupore profondamente nipponici, le più eccitanti tendenze di metà anni Novanta, trasformandole in un profluvio di colorate caramelle pop che, nell'arco di un triennio e due dischi (e soprattutto un clip iconico girato da un certo Michel Gondry per la magnifica “Sugar Water”), attirarono la curiosità dei più attenti.
Trip-hop, dance sbilenca, finanche una certa attitudine lo-fi finivano condensate e risputate dalle due musiciste con un'urgenza e una fantasia del tutto contemporanee (un approccio al suono che non si capisce come abbia fatto pensare a molti di annetterle, con grande approssimazione, alla coeva esplosione shibuya-kei), prive di oleografia o macchiettismi pseudo-etnici. Quindici anni dopo l'ultima sortita con materiale originale, il loro sound riesce ancora a essere più fresco che mai.
È anche vero che in tempi di recupero Idm e downtempo, il ripescaggio delle lente e flessuose fughe trip-hop appare tutt'altro che fuori contesto. Non vi è tuttavia alcun calcolo in “Hotel Valentine”, nessuna voglia di salire sul carrozzone di chicchessia: da esponenti primarie di un approccio alla musica, più che di un genere, che seppero leggere con grande carattere, le due, aiutate ora anche da Yuko Araki nella sezione ritmica, danno prova di una classe che il tempo non ha minimamente sbiadito, arricchita piuttosto nello sfumature e priva di ovviabili eccessi “giovanili”. Non si è poi così lontani dalla verità, a sostenere che questo terzo full-length sia forse il lavoro più equilibrato mai concepito dalla coppia.
Collocate all'interno del fantomatico Hotel Valentine, albergo infestato da presenze sinistre e luogo di strani avvenimenti, le canzoni del disco, in bilico tra ludica frenesia e sornione raccoglimento, accentuano il taglio arty delle composizioni, ma con un garbo, un tatto a malapena riconoscibile nelle prove passate. Già, quegli eccessi di cui si parlava, quella voglia di stupire a ogni costo, indubbiamente affascinante ma spesso la croce stessa del gruppo, sono stati finalmente espunti, sostituiti da una maturità di tratto che non sacrifica le iridescenti volute della loro musica, ma ne mette piuttosto in risalto le accortezze nella grammatica e le curiose dinamiche compositive: un talento finalmente domato.
Il basso dub chiamato a sorreggere i potenti fraseggi vocali delle due compari lascia intuire che le Cibo Matto sono pronte ad affrontare la modernità con l'ironia dipinta sul volto e armi degne di tanti agguerritissimi avversari. Non soltanto, ma alle tante novelle Martina Topley-Bird senza spina dorsale in circolazione, le giapponesi danno lezioni di stile, mostrano quanto certi suoni abbiano ancora molto da dimostrare, se gestiti con il giusto spirito: sulle battute più lente di “Deja Vu”, strutturate in un andamento quasi tribale, le due sodali imbastiscono un intenso melting-pot in cui confluiscono scampoli rap, finezze retrò-pop ed eleganti carezze jazz, ma che non perde mai di vista la giocosità dell'insieme, il divertimento sotteso a tutta l'operazione.
E non si poteva chiedere qualcosa di meglio, per l'estensione video di “MFN”, un mondo, musicale e non, a cromie elettriche, nel quale Yuka e una biondissima Miho sfoggiano il lato più surreale della propria indole, ci giocano senza paura di cadere nel ridicolo, con poche impressioni electro-urban a tratteggiare il disegno sonoro di base. Ma anche a non voler cedere necessariamente alla stravaganza, quel che si ricava sono gemme pop di assoluta limpidezza, aperture melodiche mai così convinte e convincenti: “Empty Pool”, col suo ritornello di romantica inquietudine, riesce nell'impresa di far scrivere alla coppia quel lento in territorio ballad che al loro repertorio è sempre mancato. Di riflesso, i campionamenti vintage percussivi della title track risultano come smorzati, mitigati da una dolcezza lirica che con un altro arrangiamento verrebbe definita dream-pop. Ma non finisce qua.
A volerlo, un track-by-track renderebbe piena giustizia a ogni singolo brano, ne metterebbe in risalto tutta la sfacciata creatività, sempre riconducibile a un progetto unitario. Ma in fondo, dove consisterebbe poi il fascino della scoperta? L'impressione è che, terminato l'ascolto e rifatti i bagagli, dopo essersi accomiatati da questo stramboide hotel sugli accordi appena pizzicati di chitarra nella candida “Check Out”, vi vorrete far ritorno ancora e ancora. Magari per approfondire meglio la storia di questa ragazza-fantasma al decimo piano, oppure per cercare ancora la compagnia di quelle presenze in zona piscina. Chi lo sa...
Quel che è certo, è che sono questi i comeback di cui si ha bisogno, non le posticce reunion di vecchie cariatidi desiderose di nuova gloria. Un ritorno insperato, a livelli più che insperati; che Yuka e Miho non ci facciano aspettare altri quindici anni, adesso.
12/02/2014