Impossibile leggere il nome Biolay e non pensare subito all’eterno bohemien Benjamin, uno che dalla Francia sembrava destinato a spaccare il mondo. Attore, musicista e cantautore, l’artista transalpino ha avuto qualche tempo fa il suo momento magico, riuscendo a garantire anche alla sorella minore Coralie – buone velleità da chanteuse ma più limitato talento – un contratto niente male con la Emi e una visibilità altrimenti insperata. Rubato l’alias all’attrice omonima di “Diabolo Menthe” e “La Moglie dell’Aviatore”, la ragazza ha fatto fuoco con la legna che aveva, ben diretta dalle mani esperte di questo o quel tecnico, e ha licenziato alcune operine discrete (l’esordio “Salle Des Pas Perdus” la migliore) prima di scomparire in una sorta di buco nero. Mentre anche Benjamin pare scivolato nel dimenticatoio, è proprio lei a farsi nuovamente viva oggi con questo “La Belle Affaire”, quarto album in catalogo che, se non si considera l’audiolibro per bambini “Iris A 3 Ans” (pubblicato a proprio nome nel 2013), interrompe un silenzio durato sei anni.
Il tocco è quello leggerissimo di sempre. Le coordinate restano improntate alla tenerezza french-pop della Françoise Hardy di cinquant’anni fa, ma a essersi fatta adulta è la prospettiva. Da semplice cantante Coralie mostra di aver compiuto progressi in qualità di autrice: lo si avverte nitidamente dal songwriting come dalle nuove liriche, spese per raccontarsi tra maternità, separazioni e una lunga permanenza a New York. Il più noto fratello, così determinante nei primi lavori, resta una figurina ai margini, nei crediti per la sola paternità di “À La Longue” (dal disco condiviso dieci anni fa con l’allora consorte, Chiara Mastroianni).
E’ invece cruciale l’eclettico polistrumentista Thomas Coeuriot, responsabile del velluto degli arrangiamenti, del zampettante esotismo che non tradisce mai il proprio approccio minimale e impressionista (grazie a ukulele, arpa, flauto, mandolino, charango e via andando) e di qualche occasionale sorpresa (i sensuali aromi latin della raffinata ma effimera “Sur Mes Yeux”).
A farla da padroni sono quindi la delicatezza, una pulizia appena svenevole e un garbo sconfinato. La confezione non potrebbe essere più accurata, ideale per un folk-pop oligominerale che si segnala più per le sue tinte tenui, le trasparenze melodiche e le saltuarie ombreggiature che non per i veri colpi di classe (a eccezione forse della piccola delizia di “Jour”, o della makiniana “Où Tu M'as Laissée”). Coralie eccelle nelle pose languide, ottimamente servita da un contorno musicale calibratissimo. A mancare è giusto un pizzico di cattiveria, quella tempra capace di garantire vere pulsazioni a questi brani, al di là degli estetizzanti ornamenti sonori. Uno dei limiti di “La Belle Affaire” risiede forse nell’abitudine con cui una certa idea di armonia intimista è stata abbracciata e poi riproposta ad libitum, rinunciando a sostanziali variazioni sul tema. Così, più che la Jane Birkin puntualmente evocata nella nota stampa, è il leziosismo di una Carla Bruni a proporsi di continuo alla mente, non senza un certo disappunto all’ascolto.
Anche un episodio più movimentato come “Eléphant Noir”, cover godibile, è attenuato dall’interpretazione della Clément, una gattina incapace di graffiare e anzi frivola, quasi pop come l’ultima Brisa Roché. La produzione resta lodevole per come eviti gli eccessi in sofisticazione e insista con un basso profilo espressivo, evidentemente avvertito dall’autrice come una necessità, e i risultati si rivelano apprezzabili quando è a formule cantautorali più ortodosse che si guarda, esili ma non prive di un loro malinconico fascino (“Rien Ne Reste”).
Al di là del pregevole lavoro di Coeuriot, il disco nasce tuttavia datato: non banalmente vintage, ma proprio un po’ troppo maturo, come fosse stato scritto quaranta o più anni fa e inciso oggi. Pur raffinatissimo, non riesce a emozionare come vorrebbe e rischia di ridursi, più che altro, a una graziosa colonna sonora di sottofondo, una rassegna di esercizi invariabilmente carini ma niente più. Un vago senso di pacificazione affiora ovunque ma, dietro quest’indole mansueta e materna, si fatica a scorgere quel po’ di irrequietezza, la profondità, il vibrare dei sentimenti, a differenza (per restare in territori non troppo distanti) di una Sarah Blasko.
Il ritorno in pista della più giovane dei Biolay si rivela insomma un'opera oltremodo curata e a tratti radiosa. Il cui unico problema, non proprio secondario, risiede nell’incapacità cronica di tradursi in qualcosa di realmente avvincente.
07/11/2014