Sembra che questo luglio abbia scelto come colonna sonora il nuovo prodotto di Chris Hooson e compagni, producendo tuoni lontani e scrosci di pioggia e pomeriggi uggiosi come in un normale novembre, trasportando anche il nostro mondo nella sempiterna malinconia di Leeds.
Dopo le collaborazioni soprattutto strumentali con Quentin Sirjacq (“ Valissa” e “The Side Of Her Inexhaustible Heart” del 2010 e 2011 rispettivamente), è la volta di produrre insieme un album a tutto tondo dei Dakota Suite, quelli che forse sono più entrati nel cuore degli ascoltatori: quelli con la voce, flebile e disperatamente emotiva, dello stesso Hooson.
È così che il post-rock cameristico, alla Balmorhea/Rachel’s, di “Committing To Uncertainty” si incastona alla perfezione nello struggimento slow-country di “This Is My Way Of Saying That I Am Sorry”, contrappuntato dall’impressionismo del dolce psych-folk parigino di “Flat Seat”, per adagiarsi poi nel jazz sussurrato e Eitzel-iano di “Dronning Maud Land”.
Una serie di emozioni stratificate e “invecchiate” come in un buon distillato si sprigiona nella timbrica inimitabile della band, tra brevi intarsi di pianoforte e sax, le spazzole sul rullante che accompagnano la mente e l’anima in un alieno torpore. Sboccia così la confessione dettata in una ninna-nanna di “The World Touches Me Too Hard”.
E come non sempre è capitato nei brani strumentali dei Dakota Suite anche gli strumenti sembrano interloquire, come in “Nothing Is Gone”, suggerendo dialoghi e mutamenti d’umore, senza limitarsi a una semplice rappresentazione descrittiva della malinconia.
Un lavoro decisamente incoraggiante per suggestione emotiva dopo il più narcolettico “An Almost Silent Life”.
31/07/2014