Marsen Jules sa bene cosa vuol dire sfiorare la perfezione. L'ha fatto tante volte, a dire il vero, con quella sua ricetta ambientale che è stata in grado negli anni di non assomigliare a nessuno e di pescare un po' da tutti. Se da un lato l'appartenenza al versante più romantico e visionario del mondo drone è da sempre palese – tanto da averlo avvicinato in gioielli come “Nostalgia” e “Les Fleurs” all'universo modern classical, raggiunto ed esplorato con successo nel recente progetto in trio – dall'altro la sua musica ha sempre mantenuto quel distacco quasi accademico, nell'atmosfera e nell'eredità generativa Enoiana, dalla materia sentimentale e dall'evocazione immaginaria.
Un'ipotetica quadra in questo suo equilibrio precario ma costante l'aveva rappresentata, l'anno scorso, il magnifico “The Endless Change Of Colour”, in due parole la tradizione ambientale filtrata dal marchio Marsen Jules. Un disco in grado di aprirsi a una quantità di sfumature nascosta dietro proprio al process-generated che aveva incoronato negli ultimi anni il Taylor Deupree organico di “Faint” - non a caso il disco uscì proprio per 12k – e l'incompreso Eno maturo di “Lux”. Un'esposizione totalitaria e formalmente impeccabile di questa sua metafisica musicale, alla quale il precedente e altrettanto significativo “Nostalgia” pareva invece quasi opporsi.
Non sembra quindi un caso che il ritorno su Oktaf – la base discografica di sua proprietà – coincida con un passo indietro, la cui natura si fa più chiara scoprendo che “Beautyfear” è, di fatto, il predecessore di “The Endless Change Of Colour”, un disco che avrebbe dovuto vedere la luce qualcosa come tre anni fa, proprio nel periodo immediatamente successivo a “Nostalgia”. A tornare protagonista è un clima più pittoresco e umano, declinato in una varietà di forme e atmosfere in realtà piuttosto nuova per un musicista le cui opere si erano in passato sempre distinte per una coerenza sonora quasi maniacale.
Stupisce, dunque, che fra questi dodici movimenti senza titolo si riescano a trovare i flussi di archi sintetici del primo immediatamente succeduti dal fragore cosmico del secondo, il minimalismo quasi niblockiano del quinto e dell'ottavo e le rimostranze dark del sesto, la malinconia soffusa del settimo e l'epicità post-cosmica del terzo. In un bignami che è forse il più eterogeneo della carriera di Jules non mancano una manciata di colpi da maestro: il tramonto caustico à-la-Irisarri del quarto movimento, il notturno soffuso del nono, le mareggiate astrali del decimo e l'atarassia celeste del dodicesimo. Ai tocchi sospesi dell'undicesimo spetta il compito di stupire tornando a sfiorare il mondo modern classical: la tessera più vivida di un puzzle dalla sublime imperfezione.
23/02/2014