Con “Lookaftering”, Vashti Bunyan è rientrata in punta di piedi nello scenario folk, quasi avesse timore di oscurare la memoria del suo lontano “Just Another Diamond Day”, o che la sua identità venisse fagocitata dalle regole banali dell’industria discografica, lo ha fatto conservando un'integrità artistica che sorprende e affascina.
Allontanati tutti i preziosi collaboratori del suo secondo album, la Bunyan raccoglie i frutti di quell’intimismo mai oscuro e sempre ricco di comunicatività, che non solo la contraddistingue ma che è realmente difficile ritrovare in altre muse del folk. È una musica che accarezza, che non conosce l’esuberanza e la superbia dei tempi moderni, fragile come una ninna nanna e ricca di misticismo come una preghiera, un luogo dove il fragore del silenzio è più forte della parola: un incanto che si rinnova ancora una volta in “Heartleap”.
Le canzoni di questo nuovo disco si seducono una con l’altra in un continuo emotivo e sonoro che celebra la semplicità con argomentazioni liriche intense, pronte a mostrare tutto il loro splendore ogni qualvolta riprendono possesso del nostro tempo. Più meditativo e personale, “Heartleap” è un puro distillato di armonie cristalline dal canto gentile, che hanno il potere di suggestionare la mente: Robert Kirby (forse è giusto ricordare il suo dietro le quinte con Nick Drake) doveva subentrare a Max Richter nella gestione delle partiture orchestrali, ma la sua scomparsa nel 2009 ha prima fermato la realizzazione dell’album per poi ispirarne il tenore più descrittivo e melanconico. Si avverte in ogni frammento dei dieci brani che Vashti Bunyan ha gestito senza panico o tensione la produzione del progetto: registrato e arrangiato con piano e chitarra, il suo nuovo album non soffre il formalismo tecnico dello studio di registrazione.
La Bunyan non brama attenzioni particolari, né usa l’arma del beautiful loser dell’industria discografica per accattivare il suo pubblico: lei è solo felice di potersi raccontare attraverso la sua musica senza dover usare altre maschere. Ha attraversato le intemperie della vita (“Across The Water”) sorpresa di poter re-incontrare gli amici (“ho aperto gli occhi e tu eri lì”, canta nella incantevole “Here”) e di poter affrontare il ricordo dolce e struggente delle cose perdute: “ero il suo unico pubblico, lei si credeva sola e il mio applauso avrebbe dovuto essere estatico, ma ho chiuso la porta e si voltò, si voltò e si allontanò” canta in “Mother”, mentre il piano mette in fila alcune delle note più memorabili dell’album.
“Heartleap” è come un neonato che hai paura di lasciare incustodito, un album la cui bellezza diventa quasi difficile da raccontare, anche se basta l’ascolto della sola ”Jellyfish” per capire che siamo di fronte a un nuovo capolavoro privo di coordinate temporali: anche il suono dei synth non ha avuto bisogno di essere sostituito dal suono più naturale di un piano per non perdere il fascino bucolico e poetico.
La creatività ha vinto sulla paura, l’onestà ha distrutto l’ambizione, regalandoci un gioiello da custodire con cura, evitando che la luce dei riflettori ne oscuri la bellezza.
01/11/2014