Tra le più grandi sfortune di William Fitzsimmons c’è sicuramente un fatto ineluttabile: che ci si può abituare anche alle cose più belle, se riproposte troppo spesso (e senza troppa ispirazione). Certo il cantautore americano non si cura neanche in “Lions” di centellinare il lato emotivamente carico della sua musica, dopo la parentesi più pop – addirittura screziata di elettronica – dello scorso “Gold In The Shadow”, tornando a un minimalismo espressivo degno del suo miglior disco, “Goodnight”.
Il sussurro di Fitzsimmons si adagia così su brani piuttosto allineati a una malinconia di fondo, che continua, a dispetto delle dichiarazioni dello stesso sui suoi propositi di onestà e di ritrovata vena, a sembrare sempre un po’ scialba. Dall’arrangiamento alla composizione, tutto il disco suona privo di freschezza, se non di ispirazione, ancorato a giri armonici ripetitivi e risapute soluzioni di accompagnamento (il pianoforte di “Josie’s Song”, il sottofondo femminile di “Sister”).
Si consuma così un gioco al ribasso, più che un ritorno alle origini, in cui anche sul piano dei testi si sfiora spesso una stucchevolezza e un’affettazione di mestizia (“Centralia”) che il miglior Fitzsimmons decisamente non conosceva – primo segno di un’involuzione forse irrecuperabile.
14/02/2014