Più calmo, acustico, e sentimentale “Pereira”, seguito del peperino “L’importanza di chiamarsi Michele” (2013), per il giovane cantautore d’origine cosentina Federico Cimini. Lì l’alter-ego Oscar Wilde-iano Michele, anti-eroe della crisi, qui un Pereira di Tabucchi-iana memoria che ripercorre trasognato luoghi e situazioni di un dolceamaro passato prossimo.
Lo provano, prima di qualunque altra, l’amarcord travestito da filastrocca travestita da sing-along in coro “Bianca”, e l’ancor più bambinesca “Stella cadente”, sopra uno sfasato brusio jazz.
Le canzoni si staccano una dall’altra con le pause della tradizionale raccolta melodica, dimenticando il flusso caotico del disco predecessore. Al contempo però permettono all’autore di centellinare le sue intenzioni elegiache, come nella serenata “L’assassino”, sillabata sopra una rada atmosfera samba, o quel tipico venticello power-pop alla Chilton che soffia tra le pieghe di “Pereira”, anche se c’è almeno un’altra delle sue orchestrazioni mutanti, una “Pelleliscia” dapprima sorniona, poi contagiosa ska e infine mazurka da sagra.
Cimini, armato degli arrangiamenti intelligenti forgiati da Mirko Onofrio, è un piccolo asso della nuova cantabilità italica del decennio 10. Nella parte di chiusa si capta un calo - ma non netto - non tanto di ispirazione lata quanto d’inventiva spiccia (lo esemplifica una piana ballata Rino Gaetano-esca, “Maria”), ma i prime cinque o sei pezzi sono semplicemente irresistibili. Complessino ricco di fiatisti, flauto, clarino, tromba, trombone e flicorno, ma anche mandolino e moog, e due comparse fuoricampo, Kutso e Simone Cristicchi.
04/06/2015