Chi avrebbe dato ancora una possibilità agli Iron Maiden?
Chiariamo, la leggendaria band heavy-metal inglese resta uno dei colossi musicali più potenti del globo, con schiere di fan pronte ad adorare ogni suo parto, grazie anche a un ricambio generazionale che possono vantare in pochi. Eppure non sono pochi gli affetti dalla “sindrome del fan tradito”, cotti a puntino dopo l’ascolto dei primi sette gioielli da studio della Vergine di ferro e bruciati dalla delusione quando i loro beniamini iniziarono a incartarsi alle prese con metamorfosi improbabili (“No Prayer For The Dying”), esperimenti coraggiosi ma ben poco convincenti (“The X Factor”) fino a episodi di puro imbarazzo (“Virtual XI”). La ripresa accennata nel gradevole e ruffianello “Brave New World”, unita al ritorno a casa del figliol prodigo Dickinson, fu solo un’illusione presto smentita da un nuovo calo prima lieve (“Dance Of Death”) poi verso la caduta libera.
Dopo due dischi ai minimi storici come “A Matter Of Life And Death” e “The Final Frontier”, sembrava davvero che la carriera discografica della band fosse finalmente giunta al definitivo capolinea. Lavori pasticciati, manieristici oltre la tollerabilità, dove le poche idee efficaci annegavano in composizioni tronfie e strabordanti, senza più traccia di un senso della misura. Ormai gli ex-paladini della NWOBHM erano diventati una delle tante band da “speriamo si mettano in testa di fare solo degli ottimi live”.
L’annuncio di niente meno che un doppio album, con ben quattro brani sopra gli 8 minuti, suonava con queste premesse come un minaccioso inferire sul cadavere del “trooper” caduto in battaglia. E invece arriva la sorpresa: “The Book Of Souls” segna finalmente un lavoro ispirato e soprattutto concreto, spazzando via con sollievo i timori di un mostro megalomane di ben 92 minuti in arrivo.
Un disco che fonde le due anime della band: la sempre più marcata vena progressive, incarnata nelle lunghe maratone del disco e quella più melodica. Il risultato è un tutto sommato convincente equilibrio tra composizioni ambiziose, come “If Eternity Should Fail”, sicuramente la miglior opener del nuovo millennio della band, e tracce dalla struttura più semplice come “Speed Of Light”, singolone da battaglia semplice, con pochi orpelli al punto giusto e un'ottima sezione solistica.
L’album richiama spesso antiche idee espresse nel duo “Somewhere In Time” e “Seventh Son Of A Seventh Son”, soprattutto nell’uso dei synth e nei fraseggi in delay delle chitarre a disposizione, forse mai come ora sfruttate in tutta la loro varietà da quando presenti in trio. Ne è un buon esempio, oltre al già citato brano di apertura, “Shadows Of The Valley”, spudorato mix tra “Wasted Years” e “Alexander The Great” con incursioni di “Fallen Angel” di “Brave New World”; non a caso altro album con molte influenze di fine anni 80.
L’estetica della band è sempre la stessa, il che rende anche questo disco un lavoro sostanzialmente di maniera: “The Red And The Black” può far storcere il naso a qualcuno con i suoi cori da stadio, ma nel complesso è una cavalcata nel segno della tipica ironia della band che dal vivo farà saltare ben più di un headbanger. Il ritrovato senso della misura del collettivo capitanato dal buon Harris, il cui basso è per una volta più discreto che mai, tiene “Tears Of A Clown” - piacevole omaggio al compianto Robin Williams - a distanza da pericolosissimi binari retorico/melodrammatici.
Nicko Mc Brain è la vera sopresa del disco: favorito finalmente da un mix secco e asciutto, lontano dal suono sporco e impastato dei tempi recenti, dà il meglio di sé nei brani più tirati come “When The River Runs Deep”, una “Be Quick Or Be Dead” dei giorni di oggi, e nell’impetuosa sgroppata ottantiana “Death Or Glory”.
Anche Bruce Dickinson porta confortanti conferme, tornando a volteggiare tra vette altissime e bassi espressivi, nonostante la recente paura del cancro alla lingua. Non sempre la voglia di strafare viene tenuta a bada, con qualche eccesso sulle ottave alte francamente gratuito, ma siamo lontani da un certo sbraitare degli ultimissimi tempi.
“The Book Of Souls” non sfiora l’eccellenza anche a causa di qualche divagazione di troppo, come nell’ambiziosissima “Empire Of The Clouds”, la maratona dickinsoniana a suggello dell’album. Le melodie offerte sono efficaci e l’uso dell’orchestra discreto e intelligente, ma non tutti i suoi 18 minuti appaiono imprescindibili, in particolare nelle fughe strumentali della sezione centrale. Stessa impressione danno paradossalmente i brani meno articolati della scaletta, i quali avrebbero avuto maggior efficacia con minutaggi più contenuti (“The Great Unknown”, “Death Or Glory” e “Shadows Of The Valley”) ma si tratta di peccati non mortali.
Concludendo, gli Iron Maiden tornano con un lavoro assolutamente gradevole che probabilmente richiamerà all’ovile più di un vecchio fan, a patto che non si pretenda da esso lo stesso impatto innovativo che ebbero album come “Somewhere In Time”. Ma sarebbe giusto pretenderlo oggi?
18/09/2015