A Daniele Silvestri la gente vuole bene, riempie i teatri e le Feltrinelli un minuto dopo l'uscita del nuovo disco, legge le sue interviste sui giornali e guarda i suoi video in rete, canticchia già quel che può dei nuovi pezzi che forse si fanno canticchiare meno che in passato, ci ragiona su e ci si raccapezza, ma fino a un certo punto, come sempre. E che la gente a Silvestri voglia bene è una delle cose belle della musica italiana di oggi, perché dimostra come sia possibile essere bravi, anzi bravissimi, e avere pure successo, come sia possibile una terza via tra il mainstream senz'anima e la troppa anima senza pubblico. E questa terza via il cantautore romano, che ormai va per i quarantotto anni, la incarna alla perfezione.
A Silvestri, poi, vuol bene anche la critica, quella di repubblica.it ma pure quella delle praterie indie-web. Anche se qualcuno, tra i puri, dovrà per forza storcere il naso, perché quello di "Salirò", per carità, quello della "Paranza", ancora davvero state ad ascoltare i suoi dischi? Ebbene sì, li stiamo ad ascoltare, quelli vecchi così come quelli nuovi, quando escono, perché Silvestri in carriera non ha sbagliato un colpo, e il modo di farci capire che il suo talento nel raccontare le storie di questi tempi in Italia ce l'hanno in pochi l'ha trovato pressoché sempre, spesso toccando livelli altissimi, a volte, come per "S.C.O.T.C.H.", né più né meno che formidabili.
Oggi, che da "S.C.O.T.C.H." è passato un lustro, Daniele Silvestri pubblica un disco che in pratica è un disco doppio, lungo poco meno del suo unico doppio vero e proprio, ossia "Il Dado", un cult che a maggio festeggia vent'anni tondi. Diciotto canzoni, un'ora e un quarto di musica: ecco "Acrobati", ecco il frutto di quella che, come l'ha definita lui, è "un'eruzione creativa inattesa, arrivata quando pensavo ormai di dover lavorare più col mestiere che d'ispirazione". Invece no, il vulcano è esploso, e anche se la lava non ha ancora finito di freddarsi appare chiaro che il paesaggio, tutto intorno, è cambiato, e parecchio. Forse sarà stata l'avventura con Fabi e Gazzè, la necessità di confrontarsi con musicisti e maniere d'intendere la musica diversi da quelli a cui nel tempo si era abituato, ma il paesaggio, davvero, è diverso.
Per molti aspetti è il solito Silvestri, intendiamoci, con testi ispirati, ironici, didascalici o enigmatici, gergali o enigmistici, giochi a incastro perfetti, equilibrismi e acrobazie senza bisogno di reti d'alcun genere. Poco amore, e, dice lui, poca attualità, eppure al di là degli esercizi più espliciti, come il singolo "Quali alibi" dove se la prende con la cultura della politica dell'emergenza, in cui ogni provvedimento è giustificato dalla fretta di dover rimediare a presunte falle d'ogni sorta, e pure, diciamola tutta, col "governo di terza mano" di Matteo Renzi. Al di là di questi esercizi, insomma, l'attualità qua e là emerge, per forza, nelle sembianze dei popoli in cammino che ci divorano gli occhi e le coscienze e in quelle di una casa parigina tra la Bastiglia e il Bataclan, nel monologo di una donna sferzata da una vita molto arcaica e - ahimé - molto moderna e nell'inno napoletano al biologico che si fa ideologia che si fa religione che alla fin fine si fa un po' barzelletta.
Però poi c'è la musica. Ci sono i suoni. E queste storie Silvestri ha voluto raccontarle facendosi carico delle idee e delle abilità di compagni inediti, dal genio folle di Enrico Gabrielli alla chitarra vintage di Roberto Dell'Era, dal violino di Rodrigo D'Erasmo all'altra chitarra, quasi da alieno, di Adriano Viterbini, che già l'aveva accompagnato nel tour col trio. Molta cricca Afterhours, insomma, presente e passata, un mondo da cui Silvestri ormai parrebbe distante e che invece lo riconosce e lo sostiene, in questo caso lo aiuta a esplorare strade nuove, magari sconnesse, scomode, ma giuste, in grado di portare dalla parte buona.
Le architetture sonore, non sempre ma sovente, sono più ricercate di un tempo, e lo sono anche le soluzioni, il modo di scegliere i mattoni con cui costruire questa nuova casa per il musicista quasi cinquantenne che oggi Daniele Silvestri è. "Monolocale" ammicca a Frank Zappa, "La guerra del sale" si giova di un altro eruttivo sfrenato come Caparezza, in "Come se" certe dissonanze e la traccia ritmica di Fabio Rondanini - che in studio ha spodestato lo storico compare Piero Monterisi dallo sgabello e dalla batteria per la maggior parte dei pezzi, salvo poi lasciargli la ribalta, come da copione, dal vivo - rimandano addirittura, un poco, ai Radiohead del nuovo secolo.
Nel molto che rimane, tra le ospitate di pregio di gente come Diego Mancino, Diodato e Roy Paci, si trovano ballatone elettriche destinate a diventare nuovi classici come "La mia casa", messa in apertura, episodi quasi fabiani (nel senso di Fabi) come la title track, sparate beat come "L'orologio" e la vibrante "Alla fine", che chiude davvero il discorso, con una densità emotiva pulsante. Canzoni belle e ricche, pensate e scritte e cantate e suonate dal nostro vero uomo della terza via, uno che non ha bisogno di punti di vista ruffiani o smussati per farsi voler bene, perché il talento, a volte, sa brillare senza nascondersi, anche da queste parti, anche di questi tempi, anche di fronte ai malcapitati noi a cui è stata data l'incombenza di abitarli.
04/03/2016