Tutto questo senza dimenticare la seconda scorribanda dei Duckworth Lewis Method, cantori dalle parti della Village Green Preservation Society, ostinati nella salvaguardia di un mondo sopravvissuto a tutta una sfilza di rivoluzioni sotto le spoglie del dorato anacronismo. Per ingannare l'attesa della sua creatura più celebrata, il lussureggiante eclettismo pop anni 70 di "Sticky Wickets" si è rivelato un diversivo più che valido, con l'aura ovattata di una giostra dalla magia vittoriana a fare a pugni con l'iperbole kitsch di chi sposi senza riguardo eleganti atmosfere oniriche e lazzi o smargiassate di bassa lega, elitario e popolaresco, per amore dell'arte si intende.
E alla fine ecco il crooner di Londonderry di ritorno al regale ovile, direttore della fotografia in fissa per le suggestioni umide, il lirismo rigoglioso e quel tocco di ineffabile decadentismo sempre esposto in bella mostra, là sulla mensola più alta del suo salone. Questo nuovo "Foreverland", capitolo undicesimo del suo breviario di vagheggino, esalta quella sensibilità da gazza ladra di cui ha parlato talvolta, la frenesia nell'accaparrare luccicanti barlumi musicali e nell'assemblarli in un bel miscuglio, secondo il proprio estro capriccioso, per creare qualcosa di originale. Si prenda la deliziosa traccia che qui chiude le danze, "The One Who Loves You": un po' di banjo, qualche orchestrazione à-la Ravel, un bel ritmo scompigliato e opportuni cambi di tonalità. È solo un esempio a caso da un disco nel quale, per sua stessa ammissione, sguazzano richiami a Noel Coward, ai Pet Shop Boys, ai Beach Boys, ai Byrds e a Johnny Cash, mescolati con studi per pianoforte, modernariato d'ogni fatta, evocazioni cinematografiche retrò, music hall e sinfonie russe.
Neil riprende il discorso esattamente da dove lo aveva interrotto, visto che l'inaugurale "Napoleon Complex" era tra le tracce bonus del precedente "Bang Goes The Knighthood", riallestita per l'occasione con discreto sfarzo e una mirabile intonazione elegiaca. L'aria frizzantina reintroduce l'ascoltatore nell'inconfondibile reame di un creativo pop la cui arte è senza tempo e si fa appena più compassata nel brano seguente, quello che presta il titolo alla raccolta. L'introspezione prende campo, animata da una mesta fanfara ma sublimata presto dall'inarrivabile brillantezza di questo artigiano delle decorazioni melodiche. È il classico episodio che accende la sua prospettiva di contemplativo indefesso, quell'indole crepuscolare senza eguali di questi tempi.
"Forse questa è la mia fase imperiale o è solo che mi piace glorificare la quotidianità", ha detto Hannon a proposito di un album che è in fondo "un'unica, grande canzone d'amore", che decanta la vita ordinaria attraverso un esuberante accompagnamento musicale e richiami a personaggi quantomeno altisonanti, uno per tutti la "Catherine The Great" oggetto della "più storicamente inaccurata hit dell'estate", nonché del classico "brano romantico che scrive chi ha guardato troppo il quarto canale della Bbc". Con il suo clavicembalo e una freschezza quasi sunshine-pop, proprio il primo singolo estratto riesce a rendere facilmente digeribile anche una grandeur camerista che, in altre mani, avrebbe potuto suonare nefasta. Con "Foreverland", il dandy nordirlandese è tornato di fatto a quel che gli riesce meglio: creare una musica pop intelligente, piena di hook e capace di pescare da una miriade di fonti espressive diverse e magari improbabili, per non lasciar riposare l'album sui propri allori e per mantenerlo in continua evoluzione, "con arrangiamenti che cambiano da verso a verso" e con parole allusive quanto elusive, aperte a molteplici interpretazioni.
Se con le sue fisarmoniche e la sua schietta malinconia "The Pact" si ispira alla chanson francese (a Edith Piaf in particolare) e "To The Rescue" riporta ai primi Seventies e alle atmosfere sofisticate di dischi come "Casanova" o "Promenade" (con inevitabile ritorno di fiamma per Serge Gainsbourg, "uno che ha molto di cui rispondere"), altrove si passa con disinvoltura dalle evocazioni traditional irlandesi (la title track) al duetto in stile Broadway di "Funny Peculiar", zampettante, oligominerale, persino minimalista considerando chi l'ha scritto, una filastrocca spensierata e zuccherina ma non stucchevole di cui si è resa complice la dolce metà di Neil, la cantante Cathy Davey.
Pare far eccezione "Other People", registrata a cappella con un iPhone in una stanza d'albergo e forte di un retrogusto metallico, poi accompagnato da pur sobrie orchestrazioni senza perdere un grammo dell'intimità originale. Già "How Can You Leave Me On My Own" si muove all'estremo opposto, un saltellante soft-rock anni Settanta che sposa gli amati 10CC e i Supertramp in modo esuberante, con un testo salace a corredo che chiama all'immedesimazione. Si apre con il ragliare dell'asino Wayne, registrato in un campo fuori dallo studio perché riassumeva alla perfezione il senso della canzone. L'impostazione a metà strada tra nonsense e arguta autocommiserazione ripristina il brio di certi passaggi deliziosamente farseschi del precedente lavoro, limitando per fortuna le implicazioni macchiettistiche di una digressione al solito molto gustosa. "I Joined The Foreign Legion (To Forget)" le viene dietro, muovendosi sul medesimo crinale con un'amarezza ben dissimulata.
Dopo una partenza eccellente, nella seconda facciata si registra un moderato ripiegamento. Con il suo candore quasi domestico, "My Happy Place" rende veniale un certo leziosismo della penna del Nostro, specie in un refrain a più alto tasso glicemico, mentre il sottile esotismo e certi turgori nella confezione di "A Desperate Man", da colonna sonora d'annata, vivacizzano e non poco per slancio eclettico pur non entusiasmando. Manca forse lo struggente colpo del ko di una "Tonight We Fly" e Neil rinuncia ancora, abbastanza vistosamente, ai registri più intensi e melodrammatici, per proseguire senza incertezze sul sentiero della stravaganza frammentaria e di un rasserenato disimpegno. Si balocca in una sorta di confortevole pensatoio e svaria un sacco, senza svarionare peraltro, con le sue hobbistiche esplorazioni di ritorno.
Pretendere qualcosa in più da un talento come il suo sa quasi di riflesso involontario ma, arrivati a questo punto, può suonare persino ingeneroso. Noi siamo tra quelli che, sorridenti, si accontentano. Accontentarsi, quando è dei Divine Comedy che si parla, equivale comunque a una sontuosa rendita.
(01/09/2016)