James Newell Osterberg Jr., in arte Iggy Pop, è un tipo piuttosto bizzarro. Ciò che lo rende un autentico outsider dell'establishment musicale non è solo la sua ostentata avversione, tipicamente punk, a tutto ciò che è socialmente prestabilito - e che lo porta alla soglia dei settant'anni di vita ad andare ancora in giro a torso nudo; ma anche e soprattutto l'essersi costruito, lungo quarantacinque anni di carriera, un profilo artistico sfacciatamente personale.
Padrino del punk con gli Stooges prima, creatura malleabile nelle mani del compianto amico David Bowie poi, Iggy ha toccato i picchi della propria discografia quando ben indirizzato da altri. Dunque, un performer presto divenuto esempio da emulare nel vasto campo rock, assurto a leggenda già nei gloriosi anni Settanta e di lì a seguire, ma poco avvezzo alle pratiche di produzione e di programmazione. Non sorprende perciò che, dopo un'evitabile reunion con gli Stooges e un paio di album sperimentali non proprio memorabili ("Préliminaries" e le cover di "Après"), l'Iguana abbia deciso di consegnarsi nelle mani dell'onnipresente Joshua Homme (Kyuss/Queens Of The Stone Age e svariati altri progetti) per essere accompagnato nella stesura di quello che, per citare Iggy Pop stesso, verrà ricordato come il suo album di congedo.
Homme, galvanizzato dall'idea di riportare a nuova vita il suo mentore artistico, accetta di buon grado l'invito e porta Iggy con sé a registrare in gran segreto una manciata di pezzi nel deserto della California. Accompagnata dal polistrumentista Dean Ferita e da Matt Helders (Arctic Monkeys) alle percussioni, l'improvvisata session band mette insieme un album che ha il sapore dell'ambiente che lo circonda: nove tracce, pochi fronzoli e tanta aria di stoner rock e di lande desolate.
Epico, ma allo stesso tempo prettamente terreno, nel suo procedere condito da riff sempre funzionali, da bassi portentosi che in taluni episodi ("American Valhalla") ricordano i giri delle quattro corde à-la Rage Against The Machine e da un tambureggiare di Helders vicino alle ritmiche hip-hop, il disco fa da cornice a un Iggy in forma smagliante. Crooner d'altri tempi, il Nostro aggiunge al cantato fatto proprio nel corso del periodo berlinese l'esperienza e la consapevolezza proprie dell'età.
"Sunday", gioiello di rock moderno impreziosito da una coda orchestrale di grande impatto, ne è l'esempio più calzante. Nell'elegante "Chocolate Drops", la voce velata di malinconia accompagna il rintocco delle campane. L'eco di Bowie si manifesta chiara in "Gardenia", mentre il lo-fi acustico di "Vulture" consente all'Iguana di traversare con la sua voce territori waitsiani.
"Wild animals they do never wonder why, just they do what they goddamn do", così recita la funky-band di supporto mentre Iggy declama i motivi per cui ne ha piene le tasche del mondo occidentale e preferisce andarsene in "Paraguay", a godersi la pensione.
Il punto parrebbe stare proprio nel sopraccitato refrain: James Osterberg Jr. non si è probabilmente mai posto tante domande. Dalla fine degli anni Sessanta sale sul palco carico di quel "raw power" selvaggio che ne ha consacrato il mito, e tanto basta.
La speranza è che, contrariamente alle dichiarate intenzioni, Iggy Pop ci regali un altro tassello di questo interessante percorso avviato in compagnia di Josh Homme. Se così non fosse, che si goda il meritato riposo; a noi lascia in dote un pizzico di depressione post-Iggy e, ciò che più conta, un album da ascoltare a volume alto, tutto d'un fiato e senza chiedersi il perché. Una boccata d'ossigeno.
28/03/2016